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Tunisia-Libia, il confine che scotta. L’analisi di Strazzari

Di Francesco Strazzari

Quando si guarda alla Primavera araba è difficile pensare a due risultati di essa opposti quanto quelli di Tunisia e Libia. Da un lato una difficile transizione democratica, dall’altro il deragliamento del processo politico verso il susseguirsi di guerre civili. Ciò può essere ricondotto a quattro elementi di fondo. Il primo è rappresentato dalla diversa esperienza storica. L’affermarsi intorno a Tunisi di un embrione statuale precedette, infatti, la nascita di uno Stato nazionale. L’esperienza coloniale tunisina, poi, inizia già nel 1881 con l’instaurazione del protettorato francese.

Questo comportò l’esportazione, da parte di Parigi, del modello di Stato francese, esempio di modernità e laicità, anche se le leggi lasciavano margini di flessibilità implementativa, soprattutto nelle periferie. Al contrario, la Libia fu una terra di colonizzazione relativamente tardiva, intrapresa dall’Italia nel secondo decennio del XX secolo, e che incontrò una resistenza formidabile da parte dei senussi. Questa sfasatura temporale comportò dunque due traiettorie di ingresso nella modernità politica del tutto distinte.

Il secondo fattore è quello geografico. La Libia è infatti caratterizzata da enormi distanze, scarsa popolazione ed eterogeneità culturale, contrariamente alla Tunisia, piccola, più densamente popolata, e caratterizzata da tensioni centro-periferia. In terzo luogo, i due Paesi hanno anche interpretato in modo diverso l’ideologia panaraba. In modo coerente e vicino al socialismo europeo la Tunisia, e in modo idiosincratico e panafricanista la Libia di Gheddafi.

Infine, il fattore forse più importante, e che ha rappresentato una chiave della transizione tunisina, è rappresentato dalla società civile e dalla sua rete di organizzazioni di rappresentanza e mediazione sociale. La distanza rispetto a Tripoli, anche qui, è notevole. In Libia infatti non vi è mai stato null’altro che un dialogo fra potere e sudditi, mediato da forme di clientela, sia durante la monarchia di Idris sia durante la jamahiryyia. In quest’ultimo periodo la dinamica dello scontro in Libia è in una fase di stallo: la retorica delle grandi conquiste di Haftar si è consumata in tattiche di logoramento sostenute dall’azione degli attori esterni. Risulta infatti evidente da vari fattori che la partita in questo momento si gioca sulle dotazioni militari fornite da altri Paesi, in piena violazione dell’embargo Onu. Inoltre, va registrata con preoccupazione la comparsa di alcune formazioni salafite che hanno sì combattuto lo Stato islamico, ma che stanno ora imponendo forzatamente sul territorio un ordine rigorista. Al termine del conflitto, di cui non si possono prevedere gli esiti, queste milizie avranno certamente un ruolo maggiore nel definire il patto sociale.

Il conflitto libico ha inoltre degli effetti sui Paesi vicini, e dunque anche sulla Tunisia, che però sono difficili da quantificare. Basti pensare al caso di Ben Gardane, città tunisina sul confine, segnata da ricorrenti proteste innescate dalla repressione della fiorente economia informale e illecita. Sicuramente lo scivolare della Libia verso la guerra civile ha causato un ampliamento di fenomeni radicati, come il contrabbando. In più, vanno aggiunte le problematiche relative ai flussi migratori che, trovandosi di fonte ad alterne vicende lungo la costa tripolina, hanno risposto in modo compensativo orientandosi verso la Tunisia.

Questi fenomeni sono da leggere anche alla luce dell’incapacità dello Stato tunisino di agire in un modo percepito come legittimo nelle periferie, dove è forte la protesta sociale. La difficoltà nell’affrontare i dilemmi dello sviluppo si traduce in un elevato rischio di radicalizzazione. All’interno del Paese sono, per esempio, presenti anche formazioni qaediste, radicate nella marginalità economica e morfologica dell’area.

In questo contesto, dunque, il conflitto libico mantiene un livello di pressione costante sul processo politico tunisino. In particolare, la presenza di gruppi armati è qualcosa cui Tunisi deve sempre guardarsi, considerata la misura nella quale la Tunisia è stata un territorio di esportazione sia di idee sia di combattenti jihadisti, in Libia e in Medio Oriente, che in parte sono rifluiti in patria.

Va però aggiunto che il piccolo Paese nordafricano ha dimostrato di avere un’élite politica, anche islamista, che finora si è dimostrata assai più capace, lungimirante e in grado di interpretare i bisogni della popolazione rispetto a quella di molti Stati vicini. La Tunisia è un Paese in cui anche un partito come Ennahda, membro della Fratellanza musulmana, è riuscito a mostrare una via lungo la quale conciliare democrazia e islamismo politico.

Questo aspetto fa ben sperare sulle capacità del sistema tunisino di mantenere costante l’impegno democratico, nonostante gli allarmi in parte derivanti dal contesto regionale. La grande e tenace mobilitazione popolare algerina, ad esempio, ha sorpreso più di un analista, rompendo gli schemi che leggono le dinamiche maghrebine solo attraverso la lente della sicurezza statale. L’Algeria è un gigante nel Maghreb, il cui passato violento fa paura, ma il cui futuro – se non saranno tradite le aspettative – desta speranze per il destino della regione.

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