Nel contesto del suo tempo, Richard Wagner era un “globalist”, anche di più di Richard Cohen, un tempo corrispondente del Wall Street Journal a Roma ed ora inviato del New York Times nei cinque continenti e autore di una rubrica (che appare su un centinaio di testate in lingua inglese) intitolata, per l’appunto, “The Globalist”.
Nato in Sassonia, Wagner finì da ragazzo nel mare del Nord dove rischiò il naufragio in quanto, inseguito dai creditori, tentò una traversata rischiosa. Errò a Parigi alla ricerca di lavoro. Diventò giovanissimo direttore del Teatro di Dresda, ma dovette scappare dai Paesi di lingua tedesca poiché alleatosi con Bakunin (proprio il Sassone successivamente considerato un’icona della reazione!) e condannato a morte. In esilio girò per mezza Europa, concependo l’inizio de L’Anello del Nibelungo su una panchina del lungomare di La Spezia. Dopo un lungo soggiorno in Svizzera, riammesso nei Paesi di lingua tedesca, principalmente a ragione dell’ammirazione che il Re di Baviera nutriva per lui, si fece lì una dimora permanente (chiamata, letteralmente, Residenza dell’illusione) ma continuò a peregrinare specialmente per l’Italia. Ravello ed Acireale, ad esempio, si contendono il merito di avere ispirato il secondo atto del Parsifal, di cui l’interno del Duomo di Scena ispirò certamente il secondo quadro sia del primo che del terzo atto. Da “globalist”, iperglobalizzato, morì a Venezia.
Perché ne parliamo? In occasione dell’ormai imminente bicentenario dalla sua nascita nel 1813, il Teatro alla Scala e la Staatsoper Unter Den Linden (temporaneamente trasferita al Teatro Schiller, per lavori di ristrutturazione) stanno realizzando un progetto ambizioso: un nuovo Anello del Nibelungo – da realizzarsi un’opera per anno (da rappresentarsi sia a Milano sia a Berlino) e da riproporre integralmente nel 2013 tanto alla Scala quanto alla Staatsoper.
La direzione musicale è affidata ad una grande bacchetta, Daniel Barenboim che, già all’inizio degli anni Novanta, realizzò un buon Anello; quella drammaturgica e scenica ad una squadra molto “trendy”: il Toneelhuis di Anversa, guidato da Guy Cassiers (scene e luci sono firmate da Enrico Bagnoli, i costumi da Tim Van Steenbergen). Ad oggi a Milano si sono viste le prime due opere della tetralogia: il “prologo” nel mondo primordiale di dei, giganti e nani (L’Oro del Reno) e “la prima giornata” (La Valchiria) con cui si scende nella terra e con cui si è inaugurata la stagione scaligera 2010-2011.
A Berlino sono in scena in marzo. Sulla lettura drammaturgica e sull’allestimento scenico la critica italiana ha preso un atteggiamento differente da quella tedesca e francese. Ci sono senza dubbio sensibilità diverse. I teatri italiani (e così il pubblico e la critica) tendono, a torto o a ragione, ad essere più tradizionalisti di quelli di altri Paesi. Inoltre, non tutti apprezzano i tempi dilatati, a volte cameristici, di Barenboim rispetto a quelli più serrati, ma a volte bandieristici, di alcuni maestri concertatori nostrani.
C’è, però, un punto che merita di essere discusso. Il progetto registico − a cui nel programma di sala de L’Oro del Reno sono dedicate ben 50 pagine − si basa su un assunto quanto meno discutibile e un po’ vecchiotto: la saga nibelungica wagneriana viene letta come una lotta delle classi sottomesse contro il capitalismo della globalizzazione. Non solo Wagner è un “globalist”, iperglobalizzato, ma amava il lusso, specialmente se a spese altrui: dagli abiti in sete e velluti raffinati a grandi palazzi in affitto (spesso mai saldati). Era l’opposto di un black block. Anzi, si teneva a distanza da chi vestiva ed odorava male. Senza dubbio, ne L’Anello c’è un’idea forte di palingenesi – ma dal mondo dei vecchi dei germanici a quello umano, anzi troppo umano. Fortunatamente, in Valchiria il polveroso assunto proto marxista di Cassiers si è avvertito, grazie a Barenboim, molto meno che ne L’Oro del Reno. Vedremo cosa c’è in serbo per la terza puntata, Sigfrido.