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I cattolici siano lievito della società. Parola di Marta Cartabia

Di Marta Cartabia

“Non guardate la vita dal balcone!”. Quante volte questa immagine di papa Francesco ha richiamato i cristiani alla importanza dell’impegno anche nell’ambito politico e a servizio del bene comune? Uscire dal proprio privato e partecipare alla vita della “piazza” per collaborare alla costruzione della casa comune è compito di ogni fede autentica, che non è mai comoda né individualista.

Come i suoi predecessori, il pontefice ha spesso segnalato l’urgenza della buona politica: non di quella asservita alle ambizioni individuali o alla prepotenza delle fazioni, delle ideologie o dei centri di interessi, o addirittura preda della corruzione; ma della buona politica, che è, cioè, capace di includere, che sa essere coraggiosa e prudente allo stesso tempo, responsabile, collaborativa, disposta anche a lasciare le sue buone idee, senza abbandonarle, per metterle in discussione con tutti nella ricerca del bene comune. La politica, meglio: la buona politica – ricorda il Santo Padre – è annoverata tra le più nobili forme di carità dalla dottrina sociale della Chiesa.

Il primo merito di questo volume di padre Occhetta, attento osservatore e prolifico commentatore della vita sociale, è anzitutto quello di raccogliere il richiamo del pontefice a non trascurare la dimensione pubblica della vita di fede, farlo proprio e riproporlo anzitutto ai cattolici come urgenza in questo nostro tempo. Nel nostro tempo: le sue riflessioni si immergono nel contesto storico attuale e da tale prospettiva si interrogano sulla presenza dei cattolici nella vita pubblica.

Vengono in primo luogo analizzate alcune caratteristiche peculiari delle democrazie contemporanee: la crisi dei partiti e degli altri soggetti di intermediazione politica, lo sbiadirsi delle contrapposizioni tra destra e sinistra e la comparsa di nuovi antagonismi (tra nord e sud del mondo), la frattura tra popolo ed élite, nonché tra società civile e istituzioni, le trasformazioni delle modalità di comunicazione che stanno incidendo profondamente sulle modalità di partecipazione alla discussione pubblica e sulla formazione del consenso. L’opera non si limita a ripetere e commentare sul piano teorico e dottrinale gli insegnamenti tradizionali della dottrina sociale della Chiesa riguardo ai rapporti dei cattolici con la politica: la riflessione di padre Occhetta muove dai problemi dell’oggi, analizzando anzitutto il contesto storico e politico che contraddistingue le democrazie contemporanee e in particolare quella italiana, calandosi nelle problematiche dei populismi verso cui sembrano dirigersi molte democrazie liberali occidentali. È dall’interno di questo frangente storico che padre Occhetta torna ad interrogarsi su quale possa e debba essere il ruolo dei cattolici nella vita pubblica.

L’autore ben conosce l’apporto dei cattolici alla politica italiana, sin dall’epoca della fondazione della Repubblica: il suo volume Le radici della democrazia approfondisce con sguardo attento il contributo dei politici democristiani ai lavori dell’Assemblea Costituente, collocandolo nel più ampio dibattito culturale del mondo cattolico di quell’epoca, incluso in particolare il confronto con le posizioni dei gesuiti della Civiltà Cattolica. Il seguito della storia è noto: l’ esperienza della Democrazia cristiana, il partito politico di riferimento naturale dei credenti per oltre quarant’ anni, è tramontata da tempo. La società italiana nel frattempo si è profondamente trasformata, sotto la spinta della secolarizzazione, della laicizzazione dei costumi e del pluralismo culturale.

L’autore prende atto con schiettezza di questi cambiamenti, osservando che i cattolici nella vita pubblica non costituiscono più “la massa”, ma sono chiamati a essere quel “lievito” di evangelica memoria che, senza clamore, trasforma. Sebbene non più in maggioranza, i cattolici sono sempre di nuovo chiamati a contribuire alla vita pubblica italiana. Dopo aver dominato la scena per molti decenni, ora la presenza dei cattolici rappresenta una minoranza, una delle tante minoranze del tessuto sociale odierno, ad alta valenza pluralistica e composita, una minoranza forse anche esigua: ma una minoranza che può essere creativa, costruttiva e vitale.

L’attuale condizione numericamente minoritaria dei cattolici nella società italiana (e occidentale) non è dunque una condanna (o un alibi) che costringe il credente a ritrarsi in ambiti privati, ma una spinta a uscire delle forme note, alla ricerca di nuove modalità di presenza, adeguate ai tempi e al contesto. La situazione sociale data è dunque una condizione propizia anche per una riflessione interna in ambito cattolico, sui propri rapporti con il mondo e con il potere civile. Padre Occhetta difende il pluralismo delle scelte possibili in campo politico quando sottolinea che la vera sfida non è l’unità politica dei cristiani, ma come costruire l’unità nel pluralismo. Nelle sue riflessioni sembra di avvertire un’eco della nota affermazione di Giovanni XXIII: “In necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus caritas”, peraltro riferita all’ambito teologico. Di qui l’insistenza sul bisogno di luoghi di riflessione, di pensiero, di elaborazione di idee: luoghi di incontro e di condivisione, ma di carattere esclusivamente “pre-politico” e “pre-partitico”.

La parola chiave è “discernimento”, l’arte di vagliare per prendere una decisione: un’arte da esercitarsi con il sostegno di luoghi di intersezione dove mettere in atto il processo di riconoscimento, interpretazione e scelta in relazione ai problemi della contemporaneità, che l’autore identifica e segnala all’attenzione del lettore. Nelle pagine di questo libro non traspare alcuna nostalgia per l’unità dei cattolici nell’ambito di una unica formazione partitica; né tanto meno si dà adito ad alcun equivoco sull’intervento diretto della Chiesa nelle questioni politiche.

Dal Concilio Vaticano II in poi il percorso di chiarificazione riguardo ai rapporti tra Chiesa e Stato si è sviluppato in modo continuo e incrementale, recuperando lo spirito delle origini del cristianesimo, il quale, sulla scia della massima evangelica, “Date a Cesare quel che è di Cesare”, aveva introdotto una alterità e una complementarietà tra ordine spirituale e ordine temporale sconosciuta al mondo pagano. Quella adamantina chiarezza delle origini si è poi offuscata nel corso della storia, a partire dall’Editto di Tessalonica del 380, con Teodosio. Ma la modernità, innescando un processo di laicizzazione dei costumi e della cultura dominante, è tornata a interrogare la Chiesa sul suo rapporto con la “città dell’uomo”, sospingendola in un cammino di riflessione e purificazione, sicché l’invito a occuparsi delle cose della polis è rivolto ai credenti, senza dimenticare che “non è lecito alla Chiesa trasformarsi in entità politica o voler agire in essa o per suo tramite come gruppo di potere”; diversamente, la Chiesa “annichilerebbe sia l’essenza dello Stato che la propria”.

Naturalmente, il cristianesimo come “religione dell’incarnazione” e come realtà comunitaria interloquisce con la comunità civile e indubbiamente incide sulla vita sociale. Tuttavia, la Chiesa non è chiamata a dare direttive politiche ai credenti né a occupare uno spazio tra i poteri temporali, né tanto meno il posto della religione civile: perciò occorre che permanga sempre una distanza tra la realtà ecclesiale in quanto tale e la realtà mondana, tale da preservare la libertà di tutti. La ragione profonda di tale ultima alterità è legata alla convinzione che la politica non sia né debba essere l’ambito degli assoluti: “Non esisterà mai in questo mondo il regno del bene definitivamente consolidato. Chi promette il mondo migliore che durerebbe irrevocabilmente per sempre, fa una promessa falsa; egli ignora la libertà umana. […] Se ci fossero strutture che fissassero in modo irrevocabile una determinata – buona – condizione del mondo, sarebbe negata la libertà dell’uomo, e per questo motivo non sarebbero, in definitiva, per nulla strutture buone”.

Lo Stato non è la totalità. La storia dimostra le aberrazioni degli Stati che perdono di vista questa condizione. Con linguaggio agostiniano si potrebbe dire che le strutture della polis sono caratterizzate da una necessaria imperfezione e sono aperte a una incessante perfettibilità. Questo alleggerisce il peso all’ uomo politico e gli apre la strada a una politica equilibrata e razionale. La presenza dei credenti nella vita politica corre sul filo teso di una polarità che deve rimanere sospesa. Da un lato sono chiamati a lavorare al cambiamento del mondo, sempre: in modo concreto e sincero, realistico, paziente, umano; dall’altro, spetta anzitutto a loro non dimenticare che la salvezza del mondo ultimamente non viene dalla sua trasformazione, da una politica divinizzata e innalzata ad assoluto. I credenti partecipano al dramma e alla “bellezza della contraddittorietà del mondo” che E. Przywara segnala come cifra suprema di Agostino.

Un contributo primario che il credente può offrire alla politica è – paradossalmente – proprio quello di liberarla da ogni teologia politica di schmittiana memoria, dall’irrazionalità dei miti politici e dalla pretesa salvifica delle cose mondane. La politica non basta a se stessa e questo è il primo e più radicale contributo che la Chiesa può dare alla vita politica. L’assolutizzazione del politico porta con sé un manicheismo lacerante e nocivo per la convivenza sociale. Non a caso, la teologia politica di Carl Schmitt ha il suo perno nella logica amicus-hostis. L’altro è il nemico, è colui che ostacola la realizzazione del progetto ideale. L’identificazione di un nemico, la sua distruzione e la contrapposizione frontale con tutte le sue proposte e, infine, la guerra sono le caratteristiche ricorrenti nella storia di ogni agire politico che si fa assoluto, che pretende di collocare il cielo in terra.

Antitetico è il pensiero aperto di papa Francesco, che valorizza le polarità del reale, in una dialettica aperta che non prelude a una sintesi la quale finirebbe per eliminare uno dei due poli in tensione, ma sa accogliere quella paradossale coincidenza degli opposti e quella concordia polifonica dei diversi di cui tutto il suo pensiero è nutrito. Il suo è “un pensiero della riconciliazione. Non un pensiero ‘irenico’, ottimistico, ingenuamente progressista, ma, al contrario, un pensiero drammatico, ‘tensionante’”.

Papa Francesco porta uno sguardo sul reale che si è nutrito del pensiero dialettico di matrice cattolica, basato su un modello polare che presuppone l’idea dell’altro nell’io, nella complementarietà, non nella reciproca esclusione. Noti a tutti sono i “quattro principi relazionati a tensioni bipolari proprie di ogni realtà sociale […] che orientano specificamente lo sviluppo della convivenza sociale e la costruzione di un popolo in cui le differenze si armonizzino all’ interno di un progetto comune”: il tempo è superiore allo spazio; l’unità prevale sul conflitto; la realtà è più importante dell’idea; il tutto è superiore alla parte. Principi le cui potenzialità per orientare le scelte dei credenti impegnati nella cosa pubblica sono ancora tutte da scoprire.

L’idea di “centrismo”, come sviluppata da padre Occhetta richiamando il pensiero di Luigi Sturzo, riecheggia questa concezione. Nelle sue riflessioni, l’idea di un “centro” allude, più che a una specifica collocazione dei credenti nell’agone politico, a una attitudine graduale, compositiva, incompiuta, riconciliativa, temperata e mai estrema. Allude a un luogo – che è allo stesso tempo un cammino – di intersezione, dialogo, mediazione, convergenza, relazione, incontro. Un luogo che sorge da un rapporto con l’altro (qualunque altro!) valorizzato sempre come bene, piuttosto che come ostacolo: “Lo spazio del compromesso […] per superare le contrapposizioni che ostacolano il bene comune”, come dice Francesco in totale sintonia con il card. Ratzinger che nel 1981, in un’omelia, affermava: “Essere sobri ed attuare ciò che è possibile, e non reclamare con il cuore in fiamme l’impossibile, è sempre stato difficile. […] Non l’assenza di ogni compromesso, ma il compromesso stesso è la vera morale dell’attività politica”. Uno spazio di cui si avverte una esigenza tanto più acuta in un tempo in cui la digitalizzazione sta trasformando le forme di comunicazione politica e di creazione del consenso, ove il dialogo si rifrange, perdendosi, all’interno di echo chambers che alimentano la tendenza alla estremizzazione, esasperando la logica amico-nemico. In ogni tempo e in ogni condizione, la storia della salvezza è segnata da un instancabile invito a costruire e ricostruire con energia indomita la città dell’ uomo, sia essa Gerusalemme o Babilonia. Oggi, come sempre, costruire si può solo costruendo, in un’azione il cui soggetto è sempre plurale: “Costruite case e abitatele, piantate giardini e mangiate i loro frutti. […] Cercate il bene della città dove vi ho fatti condurre in cattività e pregate l’Eterno per essa, perché dal suo benessere dipende il vostro benessere”.

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