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Israele e Pakistan, strana coppia navale e nucleare

A quindici giorni dal primo passaggio di potere democratico nel Pakistan, e a pochi mesi dalle elezioni avvenute in Israele, ci si può chiedere come si vedano i due Paesi. Certo, a distanza. Perché non si può immaginare in apparenza nulla di più dissimile: uno Stato che si proclama ebraico, e l’altro che si proclama islamico, Stati cioè che vogliono rappresentare istituzionalmente e nell’arena internazionale due religioni monoteiste. 

Entrambi questi Paesi hanno avuto due coalizioni confermate, quella di Nazaw Sharif, che ha vinto in Pakistan lo scorso maggio e quella di Benjamin Netanyhau che ha vinto in Israele in gennaio. Non proprio due novellini della diplomazia internazionale, che sanno certamente che sotto le palme del Medio Oriente sono frequenti i miraggi e al sukh della politica i nemici di oggi sono gli amici di domani. Rafforzati, forse, dal fatto che altre medie potenze della regione sono in profonda difficoltà (Siria e Turchia) o “sorvegliate speciali” della comunità internazionale (Iran ed Egitto).

In un articolo di qualche giorno fa su The Diplomat, Iskander Rehman del Carniege Endowment ha presentato un’ipotesi interessante: gli ammiragli della piccola, ma emergente marina pakistana starebbero studiando il modello israeliano. No, nessuno scambio di intelligence, anche se non sarebbe la prima volta che un segreto legame, che ha il gusto del “proibito”, si verifica tra i due Stati così ideologicamente lontani. Già sotto la dittatura di Zia-ul-Haq (1977-1988) infatti Israele prestò la sua opera per l’ammodernamento dei carri armati T55 in dotazione all’esercito pakistano. Oggi le somiglianze sono, secondo Rehamn, nella sindrome da “claustrofobia continentale” di  due potenze che hanno un piccolo sbocco marittimo e che si percepiscono circondate da tutti i lati terrestri. Poiché in quasi 70 anni questa percezione non si è modificata se non temporaneamente, ricorrendo a rischiosi atti di forza (Israele in Sinai nel 1967, Israele in Libano nel 1982-85; Pakistan in Bangladesh nel 1971; Pakistan in Kargil-Kashmir nel 1999), le forze di terra che prima dominavano il pensiero strategico devono contrattare le loro posizioni tradizionali con flotte di superficie e sottomarine che promettono di dare l’agognata “profondità strategica”. Anche imbarcando missili a testata nucleare.

Per entrambi la svolta è abbastanza recente. Nel 2002 un gigantesco stand-off tra India e Pakistan mise in luce la minaccia insita nello squilibrio (a favore indiano) tra le due forze convenzionali. Nella crisi di Gaza del 2012 Hamas ed Hezbollah hanno dimostrato di poter colpire in profondità, e non più solo nelle aree confinarie, trasformandosi in forze missilistiche non convenzionali e a basso costo, che operano in ambienti urbani e in grado di sfuggire a rappresaglie aeree israeliane massiccie. In un caso il Pakistan non può vincere la sfida con un India che l’ha circondata assurgendo a potenza globale (alleandosi con Usa, Giappone e migliorando i rapporti con la Cina). Nell’altro caso, Israele non può sfuggire alla realtà della sua “esiguità continentale” e demografica

Ciò che accomuna Israele e Pakistan, più in profondità ancora, è la sensazione di “vulnerabilità esistenziale” e l’idea che le flotte marine (e in particolare sottomarine) dotate di missili nucleari possano offrire respiro strategico, aumentando le prospettive di sopravvivenza della capacità di “secondo colpo nucleare” nel caso di un attacco ai loro territori. I sottomarini classe Dolphin in consegna dalla Germania a Israele nel 2013-2017 e la costituzione l’anno scorso di un Comando delle forze strategiche navali pakistane sono i segnali di questa evoluzione “navalista” di due Paesi che cercano di sfuggire ai vincoli soffocanti di un destino geografico “territorialista”.

 

 

 

 

 

 

 


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