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Essere Steve Jobs

È passato appena un mese dalla morte di Steve Jobs, il geniale fondatore della Apple, l’uomo che ha fatto passare le nostre vite attraverso lo schermino dell’I-phone. La scomparsa del geniale uomo d’affari è stata seguita da un’ondata emotiva simile al cordoglio suscitato dalla scomparsa di un’icona pop come Lady Diana o Amy Winehouse. L’unanimità e la spontaneità del lutto sono state stupefacenti, specie perché rivolte verso un imprenditore, figura di solito destinata a dividere l’opinione pubblica. A Jobs si sono applicate nozioni come quella di «guru» o «genio», inusuali per un capitano d’industria. Il fondatore della Apple sembra aver modellato coscentemente la sua figura pubblica prendendo in prestito elementi da vari contesti iconici: il politico visionario con i suoi discorsi messianici, l’artista di genio con il suo elogio dell’anticonformismo e della follia creativa, lo scienziato con il suo gusto per lo sperimentalismo tecnologico. «Stay hungry, stay foolish» del resto poteva essere uno slogan con il quale vincere una campagna elettorale.
 
Jobs si è trasformato in un’icona della cultura pop globale, diventando in un certo senso l’Andy Warhol di se stesso. Un caso unico in cui il committente di un ritratto celebrativo è stato anche l’autore del ritratto stesso. I suoi oggetti, pur pensati per un uso comune e di massa, sono diventati pezzi di design ricercati per la loro bellezza, funzionalità e per il valore aggiunto dello stimolo intellettuale concesso al proprietario. Questa modificazione della figura imprenditoriale è evidente anche in personaggi come Bill Gates e Mark Zuckerberg, per citare due grandi nomi del settore informatico. L’emozione per la morte di Jobs dimostra che il processo di estetizzazione dell’imprenditore è arrivato all’età matura. Il rampantismo anni Ottanta fu il primo vero tentativo per tycoon o aspiranti tali di investire sulla propria immagine, rendendola spendibile presso l’opinione pubblica. Così per anni abbiamo avuto foto di famiglia patinate, lusso esibito, un’estenuazione della griffe e altri fenomeni che comunque hanno segnato profondamente l’immaginario collettivo. La spinta all’estetizzazione del management è continuata, perdendo però l’esclusività: negli anni Ottanta si poteva sognare di diventare uno yuppie, ma era chiaro che si trattava di un’aristocrazia dello stile di vita. Jobs deve il suo successo non solo all’estetizzazione della propria vita, ma anche al fatto che si è proposto come democratizzatore di questo percorso. La sua figura si è mantenuta vicina, fondamentalmente amichevole e mai schiacciante nei confronti del pubblico di massa. Ci troviamo di fronte ad una singolare commistione di messianismo e dandismo, con domesticità e quotidianità. Per paradosso, i grandi guru della comunicazione, come Murdoch, hanno mantenuto più evidente la loro esclusività censitaria. Jobs ha compreso che il proprio modello estetico doveva essere conforme a quello dei suoi prodotti. Ecco perché l’I-phone o il Mac non sono stati più percepiti come oggetti d’uso quotidiano, ma come design, segni di raffinatezza carichi di valore auratico.
 
Indice delle cose notevoli
* Il famoso discorso di Steve Jobs all’Università di Stanford con sottotitoli in italiano;
* Un saggio dedicato alla Apple, l’innovativa azienda di computer fondata da Jobs: Antonio Dini, Emozioni Apple. Fabbricare sogni nel XXI Secolo, Sole 24 Ore Libri, Milano, 2009
* Uno dei più famosi e premiati spot della Apple, intitolato 1984;
* Una biografia che ripercorre le tappe salienti della vita di Jobs e descrive il suo stile inimitabile: Carmine Gallo, Essere Steve Jobs, Sperling & Kupfer, Milano, 2010
* Uno spot della campagna “Think Different”, dedicata ai folli e a quelli che non rispettano le regole;
* Una biografia che mette in evidenza i lati ambigui di Jobs: Fabio Da Ponte, La mela bacata. Le contraddizioni del sogno di Steve Jobs, Editori Riuniti, Roma, 2011
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