Il 19 gennaio di vent’anni fa moriva Bettino Craxi, l’uomo di Stato che ha incarnato più di ogni altro la parabola della “Prima Repubblica”, nell’intreccio di luci e ombre di un sistema di potere che finì per essere disarticolato dalle inchieste giudiziarie, dal mutamento negli equilibri geopolitici internazionali, dal desiderio di rivalsa di poteri “altri” nei confronti della politica, dalla corsa ossessiva dell’opinione pubblica italiana verso il traguardo del “nuovismo”.
Il “caso Craxi” rimane aperto, resta il nervo scoperto della Repubblica: additato con malanimo, oppure esaltato come uno statista perseguitato, il ricordo dell’ex leader socialista suscita entusiasmi e risentimenti di portata così emozionale da travalicare il piano della politica. E la dinamica si amplifica nell’era dei social, insulti e lodi si rincorrono sgomitando, a dimostrazione che non sempre il trascorrere del tempo riesce a sedimentare le passioni, a rendere più agevole il compito dello storico.
L’Italia, scrive Craxi, fu teatro all’inizio degli anni Novanta di un “golpe postmoderno, senza militari, giocato su nuclei della magistratura e dell’informazione” che hanno saputo insieme toccare “punte altissime di delirio e mistificazione”, dilagando “sul terreno della persecuzione, della diffamazione e della calunnia”. Pochi o inesistenti sono stati “gli ostacoli, le reazioni o le resistenze” frapposte a tale processo. D’altro canto, “puoi difenderti da un’aggressione giudiziaria, e anche da un’aggressione mediatica, ma è impossibile difendersi da un’aggressione contemporaneamente mediatica e giudiziaria”, argomenta.
Certamente, all’epoca è stato ed era così. Una consapevolezza, quella di Craxi, che forse sarebbe mutata “se” egli avesse avuto a disposizione gli strumenti dei giorni nostri, quelli a uso e consumo della dinamica politica contemporanea: i social network. Come sarebbe stato passare dai fax alle mail, e quindi ai post da Hammamet?
Se dei tanti appunti spediti via fax alle redazioni dei giornali, l’uomo di Hammamet avesse potuto farne uno strumento legato alla sua immagine viva, vibrante, sullo schermo video di un cellulare, sarebbe cambiato qualcosa? Forse no. Ma il dubbio resta.
Legato alle amare riflessioni di un uomo che, pur in assenza di Twitter e Facebook, si era già dimostrato il politico più “social”, connesso alla popolazione, vicino al simpatizzante e all’elettore, prima ancora che leader di partito. E invece, privo delle tecnologie odierne, egli può solo lamentare fino all’ultimo la “mancata obiettività e completezza” delle filiere comunicative “asservite” ai loro “padroni”, quei grandi gruppi economici e finanziari che non sono più disposti ad “accettare la mediazione della politica”.
Ma con quale approccio una personalità strutturata e complessa come la sua avrebbe guardato alla “rivoluzione della Rete”? Quale sarebbe stata la reazione dinanzi al profondo cambio di paradigma che lo sviluppo delle tecnologie elettroniche digitali ha determinato nella sfera dei rapporti fra politica e cittadini? Come avrebbe interpretato il processo di rafforzamento della democrazia diretta, e quali parole gli sarebbero uscite dalla bocca trovandosi a vivere al tempo delle scelte operate attraverso la piattaforma Rousseau?
Interrogativi fascinosi, se declinati in termini di comprensione dell’agire possibile di un uomo politico che per primo si misura con il progressivo declino dei tradizionali canali di aggregazione del consenso e con gli effetti della rivoluzione mediatica che impone differenti modelli e stili comunicativi, assai più attenti ai codici e ai tempi rapidi della trasmissione visiva. Proprio con Craxi, infatti, le dinamiche della personalizzazione e della spettacolarizzazione della politica trovano sbocco lungo il decennio degli Ottanta nelle strategie di valorizzazione della figura del segretario di partito che grazie al temperamento risoluto e determinato si presenta come un interprete della modernità nell’esercizio della leadership e nella gestione del potere, nel linguaggio e nell’attività discorsiva, nella conservazione e nella cura della propria immagine.
In definitiva, Craxi maneggia bene i congegni informativi che il frangente storico gli mette a disposizione, ne fa un uso sapiente e dinamico, anticipando tendenze e fenomeni di più ampia portata che sono oggi profondamente radicati nel Paese, intuendo l’evoluzione di processi che si articolano sul consumo di “immagini dotate di valore esemplare”. Ma la caratterizzazione culturale e identitaria del presidente socialista affonda pur sempre le radici nel Novecento, in quanto secolo delle ideologie. Egli, pur nella modernità del pensiero, resta legato ad una concezione “antica” della politica e la bussola non può che essere puntata sulla democrazia rappresentativa, i cui argini vanno certamente rafforzati all’insegna della trasparenza per impedire che cedano all’enfasi della “peggiore demagogia”.
Bettino Craxi ha incarnato alla perfezione la figura del “decisore”, le caratteristiche fisiche e il tratto caratteriale gli hanno consentito di accelerare la corsa sul terreno della personalizzazione del confronto pubblico, mentre in Italia si faticava ad acquisire coscienza della portata di un processo che andava progressivamente sviluppandosi in tutte le democrazie avanzate dell’Occidente. E comunque, quel tentativo di rispondere alle “esigenze di modernizzazione del rapporto politica-società” – messo in discussione dalle trasformazioni in atto nel contesto globalizzato – non postulava certo che la democrazia potesse sopravvivere solo con la luce riflessa di una leadership, o che la Rete potesse assolvere alle funzioni del mandato parlamentare e sostituirsi al ruolo dei partiti come veicolo della partecipazione di massa.
Craxi avrebbe certo adoperato con facilità lo strumento tecnologico, piegandolo alla battaglia “di verità”, ma non avrebbe tollerato la mancanza di barriere concettuali tra i fatti e le opinioni, non sarebbe corso dietro agli umori della “gente”.
Il lettore ci perdonerà per questa divagazione fantasiosa. In realtà, il nostro convincimento profondo è che il leader socialista si sarebbe calato con gran fatica in quella dimensione che già negli anni di Hammamet si configurava ai suoi occhi come “uno stato diffuso di opportunistica, burocratica, deideologizzata indeterminatezza”. E non avrebbe convissuto con quel filone del pensiero che mette in discussione l’idea di democrazia, oppure riduce il contesto politico-istituzionale a semplice ornamento con costi da tagliare e scontrini da esibire.
I social network, certo, gli avrebbero consentito di scavalcare il muro della “censura” che lamentava fosse stato eretto dalla grande stampa interessata a lasciarlo al suo destino di solitudine. La possibilità di raggiungere milioni di utenti in pochi secondi, di dispensare pillole di veridicità senza filtri l’avrebbe probabilmente reso un uomo felice, alleviandogli il senso di abbandono. Ma egli non avrebbe mai perso di vista l’obiettivo di “governare il cambiamento”, un tratto tipico del suo agire politico, in nome della rivendicazione di un primato, quello della politica che non getta la spugna. E sopravvive al trascorrere del tempo ed alle evoluzioni della tecnologia.