Parafrasando Winston Churchill potremmo dire che “si tratta di un indovinello, avvolto in un mistero all’interno di un enigma”. Non parliamo qui del futuro dell’Unione Sovietica, che non c’è più da un bel po’, ma di quello del Movimento Cinque Stelle, che rischia più o meno di fare la stessa fine o almeno di trasformarsi in qualcosa d’altro e ridimensionarsi massicciamente.
E questo quando non son passati nemmeno due anni dal clamoroso successo elettorale del marzo 2018, che portò il partito di Beppe Grillo e Davide Casaleggio a diventare, con un abbondante 30 e passa per cento, il primo in Italia e il perno di ogni possibile alleanza di governo. Per prima cosa è da osservare che in questo caso il detto andreottiano sul potere che logora chi non ce l’ha si è mostrato rapidamente fallace.
A capo di pochi mesi, il Movimento ha ridimensionato drasticamente il suo consenso nel Paese; ha dimezzato i voti in tutte le tornate elettorali svoltesi; ha perso pezzi (cioè deputati e iscritti) per strada; e oggi perde pure il suo capo politico, il leader prima riconosciuto ma poi sempre più contestato per i pessimi risultati raggiunti e per la gestione monocratica e autoritaria del potere interno. Aspetto più drammatico della situazione è poi il fatto che tutto questo avvenga a tre giorni dalle elezioni regionali più rilevanti dell’ultimo periodo, una sorta di indiretto test di gradimento per un governo che, sulla scia della crisi pentastellata, arranca e non trova una propria dimensione o anima.
Ora, è facile addossare ogni colpa a Di Maio, ma il fatto stesso che il Movimento non abbia un leader pronto a succedergli mostra che, più che un problema congiunturale di uomini, quello pentastellato è un problema strutturale o di sostanza. Va dato atto all’ex capo politico di averlo capito per tempo, provando a riorganizzare il Movimento su basi meno labili e oscure di quelle attuali: l’individuazione di una serie di “facilitatori” regionali, i quali sono stati presentati alla stampa proprio mentre chi li aveva concepiti si dimetteva, faceva parte di questo disegno riorganizzativo e di rilancio. Ma forse era troppo tardi, o troppo insufficiente. Che ci arrivi come reggente Di Maio, o che tale sia nominato Vito Crimi come da regolamento, fatto sta che gli Stati generali del partito di marzo saranno il punto di passaggio fondamentale per capire cosa ne sarà dei Cinque Stelle in futuro.
La battaglia si giocherà ovviamente prima, a febbraio, e coinvolgerà Grillo e Casaleggio con le loro diverse idee di partito. Mentre il primo vorrebbe muoversi verso un’alleanza sempre più stretta col Pd, puntellando quindi il governo Conte II, l’altro (come Di Maio) punta a una certa trasversalità e a un ruolo di “partito di lotta e di governo insieme”. Nel primo caso non si capisce però quale sarebbe lo specifico del Movimento rispetto al partito di Zingaretti, nel secondo si creerebbe una forza generatrice di instabilità non certo adatta a governare in momenti di crisi come l’attuale e che, priva di identità, non sarebbe adatta a mantenere un consenso duraturo fra gli italiani. In un senso e nell’altro, un futuro per i Cinque Stelle sembra molto difficile da ipotizzare.
Quanto a Conte, che vuole per sua stessa ammissione continuare a fare politica, la casa del Pd sembra per lui più accogliente di quella pentastellata. Dalla crisi del Movimento resta confermato, ad avviso di chi scrive, che se non è più tempo di ideologie e identità forti, non lo è nemmeno di movimenti tanto “liquidi” e post-politici da essere destinati per loro natura a disperdersi nei mille rivoli dello spazio politico. La crisi dell’albero era già scritta nelle radici.