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Vi spiego perché all’Italia serve una Darpa per innovare la Difesa

Di Massimo Amorosi

L’evoluzione tecnologica, che è ormai esponenziale, impone delle scelte e un approccio finalmente pragmatico alle sfide future. Secondo il ministro della Difesa francese, Florence Parly, il modello che si ispira all’Agenzia per i progetti di ricerca avanzati del Pentagono (la Darpa statunitense) è quello ideale per avere sempre il polso della situazione nel campo dell’innovazione, anche in quei casi in cui questa non sia d’immediato interesse per la modernizzazione delle Forze armate. Ciò vale anche per un Paese come l’Italia, dove è logico che a guidare i processi di innovazione sia un settore strategico quale è la difesa.

Lo ha ricordato bene l’Aiad, la federazione che riunisce le aziende italiane del comparto, in un convegno lo scorso novembre: il settore che investe maggiormente in tecnologie innovative è quello della difesa, con ritorni economici straordinari anche sotto il profilo occupazionale. Ma la pianificazione della Difesa non dovrebbe essere eccessivamente platform centric. Tale concetto si traduce infatti in un’attenzione politica oltre misura sull’acquisizione di piattaforme e sulle connesse tempistiche, spesso senza un orizzonte temporale di lungo termine che metta al centro il quadro complessivo delle capacità che occorrono allo strumento militare per restare al passo con i tempi. Il modello della Darpa è funzionale proprio a far fronte alle nuove dinamiche strategiche.

Incubatori di idee innovative che, predisponendo modelli organizzativi flessibili, premiano l’interdisciplinarietà sono la risposta all’intrinseca trasversalità delle tecnologie disruptive e alla non meno rilevante convergenza tecnologica. L’impiego dell’intelligenza artificiale (Ia) e di sistemi autonomi o semi-autonomi, ad esempio, non è circoscritto a piattaforme terrestri o navali, e spinge verso la necessità di un’unica stazione appaltante dal punto di vista contrattuale superando le tradizionali compartimentazioni. L’Ia è una tecnologia definita general-purpose, che include un’ampia varietà di applicazioni abilitanti che possono essere usate per fornire qualche forma di capacità cognitiva a diversi tipi di tecnologie, compresi i sistemi d’arma.

Allo stesso modo, sfide inedite emergono da tecnologie emergenti che tra loro convergono. La convergenza tra biotecnologie, robotica e intelligenza artificiale dischiude una vasta gamma di opportunità, ma anche di rischi, ivi inclusi quelli di natura militare o che hanno un impatto sulla sicurezza. Il modello da perseguire è quello che ha come scopo mettere in rete il mondo della difesa con la grande industria, le piccole e medie imprese, le start up innovative, il mondo accademico e quello della ricerca scientifica e tecnologica. La priorità: sviluppare tecnologie altamente innovative per applicazioni duali. Mettendo così in moto talenti, cervelli e competenze, al servizio delle nostre Forze armate, ma soprattutto del sistema Paese nel suo complesso.

La nostra industria e il comparto della ricerca scientifica e tecnologica hanno già raccolto la sfida dell’innovazione e dell’interdisciplinarietà. Leonardo ha lanciato lo scorso dicembre l’iniziativa dei Leonardo Labs per progetti innovativi nei settori dei big data, Intelligenza artificiale e machine learning. Dal canto suo (per fare un altro esempio) l’Istituto italiano di tecnologia di Genova ha progettato un umanoide al fine di effettuare operazioni ad alto rischio senza mettere in pericolo l’operatore, partecipando alla Darpa robotics challenge del 2015 e testando il sistema l’anno successivo per prove di ispezione negli edifici di Amatrice a seguito del sisma. Le sinergie tra tutte queste eccellenze nazionali devono essere valorizzate e messe a sistema.

Un modello Darpa adattato alla realtà italiana risponde a questa specifica esigenza. Innanzitutto, con una razionalizzazione nell’ambito dell’area tecnico-amministrativa della Difesa, ma coinvolgendo altresì altri dicasteri come ministero dello Sviluppo Economico e ministero dell’Università e della ricerca in ragione delle ricadute sul tessuto produttivo nazionale, nonché sul mondo accademico e della ricerca. Una riforma che sia incisiva dovrebbe però prevedere anche un’articolazione periferica della nuova struttura interforze che funga da autentico laboratorio di idee dirompenti, in cui i fondi possano essere stornati da progetti poco performanti verso quelli con maggiori probabilità di successo. In vista della competizione strategica all’orizzonte, un investimento pluriennale che faccia guadagnare all’Italia uno spazio nel novero dei grandi Paesi non è ormai più rinviabile.

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