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Alemanno e Fini. C’era una volta la Destra

Gianni Alemanno e Gianfranco Fini

Commento pubblicato oggi sul quotidiano La Gazzetta di Parma

La parabola della destra italiana è cominciata e finita a Roma, e forse era giusto così. Fu la capitale d’Italia a fare da trampolino, nel 1993, all’allora segretario dell’ancora Msi, Gianfranco Fini. Un quasi sindaco, votato dal quarantasette per cento dei cittadini al ballottaggio con Francesco Rutelli. Fini perse per un soffio. Ma quel consenso senza precedenti per un leader politico estraneo alla casta, che all’epoca si chiamava partitocrazia, lo lanciò e lo legittimò sulla scena nazionale ben più della famosa dichiarazione apri-pista da parte dell’allora solo imprenditore Silvio Berlusconi (“a Roma sceglierei Fini, non avrei un secondo di esitazione”).

Alemanno snobbato dunque bocciato

Ora la capitale d’Italia e delle fortune politiche della destra ha liquidato le ultime speranze dell’ultimo erede in tradizione: il sindaco Gianni Alemanno, bocciato al ballottaggio con un imbarazzante trentasei per cento in un contesto ancor più imbarazzante di astensioni punitive, mai viste prima. Punitive per tutti, naturalmente, ma soprattutto per il sindaco uscente e non più rientrante: neanche un romano su due ha ritenuto di dover andare alle urne per esprimersi sul primo cittadino, come se non ne valesse neppure la pena.

Un ventennio senza l’attimo fuggente

Da Fini ad Alemanno sono passati vent’anni esatti. Vent’anni durante i quali, dall’opposizione vigorosa ma ininfluente del vecchio Msi, la destra è diventata ampia ma indifferente maggioranza di governo (e di Campidoglio). All’inizio con An, poi col Pdl, passando per li rami – rami secchi, tagliati dagli elettori – del minuscolo Fli. Vent’anni, eppure in tutto questo tempo la destra non ha colto l’attimo fuggente.

Gli errori della destra italiana

Invece che proporre una certa idea dell’Italia con quell’orgoglio nei valori tipico dei partiti conservatori, e quella voglia di cambiamento che distingue le forze liberali e riformatrici in tutta Europa, la destra italiana s’è accasata con l’anti-italianità della Lega: il partito per la patria amoreggiava coi secessionisti. Invece che rivendicare una politica di “legge e ordine”, come i gollisti in Francia, i popolari in Spagna o i “Tories” in Gran Bretagna, la destra italiana ha avallato, talvolta con zelo da prima della classe, ogni forma di garantismo e cavillo legislativo a discapito dell’innocente vittima del reato: la giustizia ingiusta. Invece che innovare il malcostume del Palazzo, rinunciando ai vitalizi, alle auto blu e al finanziamento pubblico ai partiti, i rappresentanti della destra italiana sono saliti sul carro: non più via, ma viva i privilegi! Invece che testimoniare con atti e fatti l’importanza anche morale del principio del merito, l’unico principio che mette sullo stesso piano il figlio di un Dio minore con quello di papà, la destra italiana è rimasta seduta nella comoda tribù del “tengo famiglia”, che ammorba la politica e la società da troppi anni. Destra senza bussola e senza memoria, destra senza futuro.

Il conto delle occasioni mancate

Anche tralasciando le beghe di cortile e il rapporto altalenante e freudiano con l’alleato e capo Berlusconi, anche sottolineando l’assenza di una linea in politica economica, liberista o sociale che fosse – purché fosse -, col verdetto di Roma la destra italiana ha pagato il conto finale. Il conto, salatissimo, delle occasioni mancate, a fronte di un consenso nazionale che era arrivato (anno 1996) al sedici per cento, confermando An il terzo partito d’Italia dopo Pds e Forza Italia.

La proprietà dei voti

Ma i voti, si sa, non “appartengono” a nessuno. Come un vento lieve, vanno di qua e di là. A volte diventando addirittura tsunami, come in Beppe Grillo, arrivato al venticinque per cento dei consensi e pure lui in calo dalle politiche. A volte basta un battito di farfalla.

La fine di un sogno

Alla destra italiana è così successo di perdere tutto quando ormai aveva vinto tutto. Perché la sola vittoria che conta è la capacità di saper indicare un grande sogno italiano, e cercare di realizzarlo. La sola vittoria che conta non è occupare poltrone, ma dare l’esempio. Gli italiani questo hanno sancito, mandando a casa l’ultimo mohicano Alemanno: la fine di un sogno, la mancanza di esempi. Vent’anni dopo.

f.guiglia@tiscali.it

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