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Quali sfide per l’Europa (e l’Italia) post Brexit. Le proposte di Beghin (M5S)

Di Tiziana Beghin

In questi ultimi mesi, due sono i temi che hanno monopolizzato l’attenzione del mondo istituzionale europeo, il nuovo quadro finanziario pluriennale e Brexit. I due temi sono profondamente connessi al futuro dell’Unione e se dobbiamo affrontare la tematica dell’Europa dopo Brexit, credo non si possa evitare di affrontarli entrambi. E vorrei cominciare proprio dal budget pluriennale.

Perché il futuro dell’Unione passa senza dubbio dal suo bilancio e dalla sua capacità di ingaggiare e utilizzare risorse per il perseguimento dei suoi obiettivi. La discussione sul QFP 2021-2027 non è ancora stata chiusa e per questo aspettiamo tutti con impazienza il vertice di dopodomani, ma auspichiamo che il nuovo QFP sia un po’ più vicino alla posizione dell’Italia e del Parlamento europeo rispetto a quello che abbiamo visto finora.

Noi del M5S, insieme al governo in sede di Consiglio, abbiamo chiesto più risorse e che il bilancio non dimentichi le politiche tradizionali, come quella agricola e di coesione, ma che si concentri anche su connettività, digitale, ricerca e, senza dubbio, ambiente e cambiamento climatico.

L’Italia ha appunto richiesto che il 25% del bilancio sia destinato a politiche ambientali e climatiche e non si oppone certo alla solidarietà ai Paesi meno sviluppati, ma chiede a gran voce che anche i Paesi con un tasso di sviluppo più alto non siano lasciati soli e esclusi dai computi per i fondi europei. Chiediamo quindi l’innalzamento dell’indice di prosperità relativa per le regioni meno sviluppate nei paesi a medio reddito, come il nostro. Vogliamo, infine, che il nuovo bilancio si faccia carico finalmente di quelle sfide, come l’immigrazione, che un singolo Paese non può affrontare da solo, possibilmente anche cercando di comprenderne e curarne le cause originarie, con la cooperazione allo sviluppo e il supporto alla protezione dei diritti umani.

Chiaramente per tutti questi obiettivi, servono risorse. Per questo noi difendiamo, insieme al governo, l’aumento della base di risorse proprie dell’Unione europea, di modo che l’espansione del bilancio che auspichiamo non avvenga sulle spalle dei soli Paesi membri.

È necessario, ad esempio, fare in modo che coloro che beneficiano delle lacune nell’ambiente regolamentare e normativo europeo diano il loro contributo al benessere comune. Penso a una corporate tax per chi sfrutta le differenze di tassazione tra i vari stati, o una tassa sul settore digitale, ma anche la carbon tax sui grandi inquinatori. Siamo inoltre aperti al meccanismo di adeguamento dell’anidride carbonica alla frontiera, un tema di cui sicuramente ci occuperemo in INTA perché permette di tutelare l’ambiente e garantire la concorrenza leale tra chi produce dentro e fuori l’Unione europea.

La seconda ed ultima sfida dell’Europa post-Brexit di cui vorrei parlarvi è la forma che assumerà il partenariato tra noi ed i nostri amici britannici. Fermo restando che Brexit non può che essere un evento triste per tutti noi, io credo che l’Europa e l’Italia saranno per sempre amici dei cittadini inglesi con i quali continueremo a coltivare una relazione profonda e privilegiata e su cui contiamo per vincere la sfida del nuovo partenariato che prenderà quasi sicuramente la forma di un accordo di libero scambio, dal momento che il Regno Unito ha auspicato una presa di distanza dal mercato unico e dalle regolamentazioni europee che sono necessarie per farne parte.

Un accordo di libero scambio con un Paese come la Gran Bretagna non trova certo nei dazi la sua difficoltà principale. Da sempre oltremanica sono aperti al commercio, per cui ritengo che i principali ostacoli all’accordo saranno sicuramente da rintracciare in alcune forme di barriere non tariffarie e, soprattutto, in un possibile alleggerimento delle norme sui controlli sanitari, auspicato dalle autorità inglesi per rendere meno regolamentato, ma molto più competitivo, il mercato alimentare inglese. Se queste ipotesi dovessero trovare concretezza ci troveremmo di fronte ad una concorrenza sleale, che non accetteremo.

Un altro possibile terreno di scontro è sempre quello della concorrenza sleale, ma stavolta in ambito di flussi commerciali. L’annuncio inglese di voler istituire zone franche portuali in vari punti del Paese sembra poter aprire la porta al rischio di distorsione dei flussi commerciali entranti, soprattutto in vista dell’accordo di libero scambio che andrà delineandosi.

Infine, sempre in ambito commerciale, non bisogna sottovalutare i rischi di un molto probabile rilassamento dei controlli doganali nel Regno Unito. Già in passato l’Inghilterra ha dimostrato di chiudere un occhio, e forse anche due, sulle frodi in dogana, che sono state identificate dall’OLAF e da altre autorità europee. Quando verrà meno questo controllo, si correrà il serio rischio di trovarci di fronte a casi di distorsioni nei flussi commerciali (trade diversion), come il port shopping, dove gli spedizionieri identificano i punti di accesso più favorevoli. Se questa situazione non sarà corretta , i rischi per i consumatori saranno elevati.

Forti di queste considerazioni, credo che la Commissione dovrà essere particolarmente attenta nei dettagli di questo futuro accordo, che è assolutamente necessario, ma che deve funzionare per il bene dei cittadini da entrambe le sponde della Manica. Il premier inglese Boris Johnson ha espresso la volontà di terminare i negoziati per questo futuro accordo di libero scambio entro il 2020, data che, in virtù della mia esperienza in Commissione commercio, mi sembra alquanto ottimistica.

Da parte nostra, prevedo un accordo forse meno ambizioso di quelli con Canada e Giappone e che probabilmente non permetterà al Regno Unito di godere del mutuo riconoscimento dei suoi prodotti in Europa.



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