Può Bernie Sanders, il socialista con la passione per le rivoluzioni antiamericane, diventare presidente degli Stati Uniti? Secondo il modello di FiveThirtyEight è lui l’uomo da battere nelle primarie democratiche. Il sito di Nate Silver dà al senatore del Vermont il 47% di chance di vittoria. Dietro di lui non c’è un altro politico che ambisce a sfidare il repubblicano Donald Trump bensì lo scenario del caos, quello di una “contested convention”, accreditato del 41% di possibilità. Al terzo posto c’è l’ex vicepresidente Joe Biden (8%), seguito da Michael Bloomberg (3%), poi via via tutti gli altri, a partire da Elizabeth Warren, con meno di una possibilità su cento di conquistare la nomination dell’Asinello.
A invitare a porsi questo interrogativo è l’intervista rilasciata da Sanders al programma 60 Minutes sulla CBS. Nella lunga chiacchierata il senatore si è lanciato nella difesa del regime di Fidel Castro: ha aiutato a combattere l’analfabetismo, ha spiegato con frase che suonano un po’ come la nostrana “ha fatto anche cose buone”. L’aveva già fatto nel 2016, puntando però sul sistema sanitario cubano. “Ci opponiamo con forza alla natura autoritaria di Cuba, ma sai, non è giusto dire semplicemente che tutto va male”, ha detto ieri Sanders all’intervistatore Anderson Cooper. E ancora “Quando Fidel Castro è entrato in carica, sai cosa ha fatto? Aveva un enorme programma di alfabetizzazione. È una cosa negativa? Anche se l’ha fatta Fidel Castro?”. E i dissidenti imprigionati? “Certo, condanniamo questa cosa”, ha risposto Sanders a Cooper. E a chi lo critica per le sue posizioni che cosa risponde? “La verità è la verità, e questo è ciò che è accaduto nei primi anni del regime di Castro”, ha aggiunto il senatore socialista.
I suoi avversari si sono scagliati contro di lui. Bloomberg l’ha accusato di dimenticare i campi di lavoro forzato, la repressione religiosa, la povertà, gli assassini. Biden, facendo leva anche sul sospetto che Mosca stia aiutando Sanders oltre che Trump, di tentare il flirt con i leader autoritari. Ma è un consulente dell’ex vicepresidente, Cristóbal Alex, ad affondare il colpo più duro: “Sembra trovare più ispirazione nei sovietici, nei sandinisti, nei chavisti e in Castro che in America”.
E questa distanza dagli Stati Uniti si è rivista in un’affermazione successiva di Sanders, che ha spiegato di aver sempre criticato duramente tutti i regime autoritari in tutto il mondo, compresi “Cuba, Nicaragua, Arabia Saudita, Cina, Russia”. Ma così facendo si è infilato in un enorme problema che riguarda gli equilibri della politica estera del Paese che si è candidato a guidare. Infatti, tra i regimi autoritari annovera l’Arabia Saudita, sempre più partner commerciale e strategico degli Stati Uniti, ma non l’Iran, che perfino l’ex presidente Barack Obama, autore del patto nucleare, mai sognerebbe di non inserire in un elenco dei regimi.
Immediatamente è tornato a circolare un articolo di un mese fa firmato da Ronald Radosh, un ex marxista statunitense oggi conservatore, che sul Daily Beast spiegava che nel 1979, durante la crisi degli ostaggi in Iran, Sanders appariva vicino a Teheran vista la sua contiguità con il Partito socialista dei lavoratori (una formazione trotzkista statunitense) che usava toni antimperialistici che suonavano come l’eco della propaganda dal regime degli ayatollah. Diversi siti statunitensi si sono lanciati nel fact checking di quella storia arrivano alla conclusione che no, Sanders non difese Teheran. Ma certo, la vicinanza a quel partito e i silenzi davanti a certe affermazioni (tra le tante, gli ostaggi erano agenti della Cia), non sembrano sufficienti. Specie oggi che Sanders è candidato alla guida del Paese.