Leggero, pesante, forte o minimo: quale futuro per lo Stato?
Da Londra a Pechino, da Washington a Roma passando per Bruxelles, il costo del rientro delle finanze pubbliche all’interno di percorsi più virtuosi sarà considerevole, e ridisegnerà la mappa di quello che la politologia anglosassone chiama “public service”, la macchina politico-amministrativa, a tutti i livelli.
Sarà una Big society a sostituirsi al “Grande Stato” che abbiamo visto disegnarsi all’ombra del vecchio Keynes, nei giorni della sua rivincita tra il 2008 e il 2010? La scommessa britannica di David Cameron ha attirato l’attenzione di molti liberali, e rappresenta senz’altro un modello di “disintermediazione”. A questa prospettiva ha offerto autorevole sponda l’Economist, il cui special report del 19 marzo scorso era assai significativamente intitolato “Taming Leviathan” (domare il Leviatano). Quella di Cameron, pur con alcuni limiti legati alle tradizionali impostazioni ideologiche conservatrici, è giudicata dal settimanale londinese “la via più audace del mondo ricco”, un misto di pluralismo, localismo e volontarismo. Delegando il controllo di capitoli chiave della spesa pubblica alle comunità locali (ai genitori per l’istruzione, ai medici per la sanità, ecc.), lo Stato viene ridislocato, prima ancora che ridimensionato; è una scelta di decentralizzazione che recupera l’ispirazione dei “grandi riformatori del XIX secolo”, un rinnovato e genuino “radicalismo” per il nuovo millennio. Con due frecce al proprio arco: la “portata impressionante delle ambizioni del governo”, che ha già battuto in termini di riforme il confronto con il primo anno della Thatcher, e la necessità che tutti i governi del mondo ricco facciano “qualcosa di simile” al più presto.
Il tema è, come si sa, estremamente delicato. Se ne discute ormai anche in Italia, con convegni e incontri che segnalano l’interesse per una gestione decentrata e pluralistica dell’intervento pubblico, conforme all’idea di sussidiarietà che il nuovo Titolo V della Costituzione ha introdotto nell’ordinamento. Oltre alle opportunità però, ci sono i rischi e i costi sociali, e disintervenire non è mai un atto neutrale dal punto di vista politico: vuol dire ridefinire priorità e settori di intervento, vuol dire rimodulare il rapporto tra istituzioni e società. Questo rapporto non è libero e manovrabile arbitrariamente, ma è soggetto ad una serie di limitazioni che sono nella storia politica e nella psicologia sociale di ciascun Paese.
È in corso da tempo una lotta tra “modelli nazionali”. Si tratta di un confronto tra sistemi istituzionali-economici che racchiudono caratteristiche storiche, giuridiche, politiche e sociali specifiche ad alcune aree del mercato mondiale, che tendono a generalizzare per stabilire e definire le rispettive aree di influenza, innanzitutto sul processo europeo. Ci riferiamo a Francia, Germania e Gran Bretagna, che ripetutamente agitano, difendono e ripropongono il proprio modello sulla scena internazionale, con l’obiettivo di determinare in modo strategico gli equilibri europei. Il merito del citato rapporto dell’Economist è quello di non limitare il confronto ai tradizionali modelli, aprendosi anche alle evoluzioni e ricette dell’Asia orientale; tuttavia, nella scommessa centrale della Big society (tagliare la spesa pubblica senza ridurre le prestazioni di welfare) c’è una chiara sfida ai presupposti classici del partito francese (di statalismo continentale), e un’offerta implicita al partito renano e alle sue ali più liberali.
In questo quadro come si colloca l’Italia? La nostra principale specificità risiede nella centralità costituzionale del lavoro, non dei “lavori”. In altre parole, checché ne dicano i cultori della liquidità postmoderna, non tutti possono inventarsi mestieri e vocazioni imprenditoriali ad ogni svolta del ciclo: la stabilità è, nella nostra tradizione, un valore.
Concentrare le risorse destinate alle politiche attive del lavoro è un buon punto di partenza per disinnescare la pericolosa e ricorrente agitazione del conflitto tra supposti “privilegiati” ultraquarantenni e giovani precari e disoccupati. Un’altra opposizione che purtroppo emerge a margine delle proposte neo-liberali di riforma dello Stato è quella tra lavoratori del settore privato e lavoratori pubblici, con un forte stigma sui secondi. In Italia come altrove l’impiego pubblico è un asse fondamentale della partecipazione femminile al lavoro. Perciò va trattato con estrema cautela, perché svolge un ruolo sociale insostituibile di emancipazione e di realizzazione individuale per svariate centinaia di migliaia di donne, indirettamente aiutando la crescita ordinata ed armoniosa della famiglia. È possibile, certo, limitare l’ipertrofia statale in determinati settori: l’arte, l’istruzione, l’assistenza sociale, lo sport sono capitoli in cui vivaci comunità locali trovano sponda in altre fonti finanziarie, come le fondazioni bancarie. Nel Paese delle 70mila società sportive questa è già una realtà.
Ci sono invece settori della protezione sociale in cui la guida pubblica si giustifica con la necessità di presidiare obiettivi di equilibrio e di coesione. Senza considerare l’assenza di investimenti programmati per immettere nel mercato aree arretrate: lì sembra troppo prematura, almeno per l’Italia, la tentazione di seppellire (di nuovo) Keynes! Ma questo è già un altro capitolo.