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Chiesa e social. I consigli di don Dino Pirri per riscoprire il senso della carità

Tante parrocchie si stanno organizzando, in questi giorni di misure restrittive dovuta all’epidemia da coronavirus, per celebrare le messe in streaming o sui social, o per offrire strumenti che facciano sentire il popolo della Chiesa meno solo. “Dobbiamo aiutare le persone a capire bene questo momento, che servirà a quando rivivremo l’Eucarestia”, ci spiega don Dino Pirri, giovane sacerdote marchigiano, volto di Tv2000, dove per un periodo ha condotto la striscia domenicale di commento al Vangelo “Sulla Strada”, e autore del libro “Cinguettatelo sui tetti. Il Vangelo di Marco su Twitter” (Editrice Ave, prefazione di Daria Bignardi). “Ma io posso farti una riflessione forse un po’ in controtendenza rispetto al mondo…”, ci anticipa tuttavia don Dino, che su Twitter, dove è molto attivo, si descrive “un prete felice”. Qualcuno di recente lo ha visto anche tra i personaggi del pubblico di Propaganda Live, il programma di La7 condotto da Diego Bianchi.

Don Dino, tutto questo che impressione le fa? Dobbiamo aspettarci le video-benedizioni delle case?

A bruciapelo, il mio giudizio è abbastanza negativo. Nel senso che mi domando: abbiamo l’ansia, noi preti, di farci vedere, oppure siamo veramente mossi dal bene dei fedeli? Anche io mi sono detto: facciamo la messa in streaming. Poi però ho pensato: ma ci sono già le messe in televisione. Perché devo fare la messa mia? Da cosa ci viene quest’ansia? Poi ho visto alcune messe fatte su Instagram. Quando non sono fatte con competenza risultano un po’ goffe e non molto edificanti, anche per i non credenti che ci ridono sopra.

Cosa proporrebbe?

Si potrebbero usare questi mezzi, i social, le immagini, anche lo streaming, per fare altre cose. La celebrazione dell’eucaristia non è riducibile a tutto, non può essere contenuta in una piattaforma digitale. Noi dobbiamo avere il coraggio di dire: non possiamo partecipare all’Eucarestia domenicale. Anche guardarla in tv, non è come partecipare personalmente alla Messa. L’Eucarestia richiede una presenza fisica in un contesto di fraternità. Altrimenti si favorisce la deriva di un’immagine molto privatista della fede, che oggi sta andando per la maggiore anche in molti gruppi. L’Eucarestia è un fatto comunitario e non può essere smembrata o diluita. Piuttosto proviamo a rendere la nostra vita cristiana più “eucaristica” anche se non possiamo andare a messa.

Che ha proposto ai suoi parrocchiani?

Ho sentito il bisogno di dire con coraggio: in certe situazioni siamo chiamati a vivere senza eucaristia, persino la domenica. La tecnologia non può supplire a un incontro, che deve avvenire tra persone che si toccano, si abbracciano, si parlano e si guardano. Ma strumenti come i social possono essere utili per supplire ad alcune esigenze. Mi piacerebbe usare la tecnologia digitale per aiutare i fedeli a vivere meglio questi giorni senza la Messa, proponendo loro di vivere particolari atteggiamenti: ad esempio, la gratitudine, anziché la lamentela. Proponendo di vivere di più la Messa senza andare a Messa. Dedicando più tempo all’ascolto della Parola di Dio e alla preghiera in famiglia. In questo tempo siamo chiamati a vivere un’assenza, come nel Venerdì santo. Credo sia un segno provvidenziale, che risveglierà di entusiasmo le nostre liturgie future.

I fedeli, gli anziani e gli stessi ammalati, non rischiano di essere lasciati soli anche dalla Chiesa?

Nella Chiesa c’è il sacramento dell’Unzione degli infermi, a cui è legata la cura pastorale e tutta una serie di attenzioni. C’è un’opera di misericordia, che è visitare gli ammalati, che non è fargli ascoltare la Messa in streaming. Gli ammalati si sentono soli, se nella vita di tutti i giorni sono isolati dalle loro famiglie, e dalle attenzioni pastorali della comunità cristiana. Un ammalato non si sente abbandonato se nella famiglia è accolto e se la parrocchia, in qualche modo, fa sentire la sua presenza. In questi giorni non possiamo portare la comunione agli ammalati perché è pericoloso soprattutto per loro. Però chiederò ai ministri della comunione della mia parrocchia di chiamarli al telefono. Quindi non porteranno la comunione, ma si faranno voce della comunità cristiana, con una chiacchierata con loro o con i loro familiari. Questo è un segno di attenzione.

Si fa quel che si può, insomma…

Talvolta ho la sensazione che organizzare le Messe in streaming per l’ammalato sia come dare 2 euro al povero in strada per levarselo di torno. Ma non è questa la carità. Invece di trovare il modo per sostituire quello che c’è stato tolto, perché non usiamo questo tempo per pensare a come vivono le nostre comunità? Noi gli ammalati che stanno soli ce li abbiamo sempre, non è mezz’ora di messa che risolve loro la solitudine. Perché noi come comunità non siamo più presenti?

Bella domanda, da farsi più spesso.

Noi abbiamo l’illusione che per ogni problema della vita ci sia una soluzione, ma ci sono tanti problemi della vita di tutti i giorni che non hanno una soluzione. Un malato terminale di cancro non ne ha soluzioni per guarire, ma puoi stare con lui. Uso i social, ma forse, perché li conosco bene, ne ho capito la potenzialità e i limiti. La riflessione da fare è: come possiamo essere vicini alle persone sempre? Quindi, possiamo usare questi strumenti per raccontare la vita della comunità, ma non per essere comunità. Per spiegare come restare senza Messa, non per sostituire la Messa. Ricordando che ci sono comunità cristiane nel mondo, che stanno senza messa per mesi, perché non hanno i preti. Eppure, sono comunità vive.

Ci fa qualche esempio di cose che si potrebbero fare, a suo avviso, in rete?

Possiamo fare catechesi di approfondimento, possiamo dedicare questo tempo all’istruzione del nostro popolo. La maggior parte dei nostri cristiani è ignorante su tante cose. In streaming si può fare qualche lectio divina, per iniziare all’ascolto della Parola. La liturgia della Parola si presta, il gesto liturgico del sacramento invece è più complicato da trasmettere. Anche le catechesi però, sono in tanti a farle e diffonderle in rete. Allora, semplicemente, ne prendo una buona e la faccio diffondere.

Qual è lo spirito cristiano con cui affrontare questi giorni drammatici?

Lo spirito dell’obbedienza alla Chiesa che ci sta dando indicazioni, su come vivere anche la fede in questi giorni, e quindi di non fare i saputelli. Di attenerci anche alle indicazioni che ci vengono date, dallo Stato e dalle autorità civili. Poi discuteremo più in là se sono state giuste o meno, efficaci o meno. Lo facciamo con serenità e senza lamentarci. Eliminare la mormorazione e la lamentela dalla nostra vita, e se possibile vivere l’ironia del momento, fare una battuta, anche scherzare su certe cose. Ieri alla fine della messa non sapevamo che non avremmo più celebrato. Ma ho detto ai miei parrocchiani: vi consiglio di contattare, ognuno, una persona sola che non ha parenti o amici, oppure una persona con cui avevamo interrotto i rapporti. Ora abbiamo il tempo di fare una chiamata. Quindi consiglio: scrivere meno sui social e fare una telefonata in più.


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