Ha suscitato un appassionato dibattito nelle chat dei costituzionalisti il tema del distanziamento sanitario dei parlamentari, obbligatorio, oltre che per ragioni di autotutela, anche dal punto di vista dell’adempimento alle norme anti-epidemiche da loro stessi approvate, ma anche causa di perplessità e problemi legati alla rappresentanza, alla necessaria continuità del lavori e ai regolamenti parlamentari.
Tra la drastica decisione delle Cortes spagnole che hanno chiuso per malattia, e l’incitazione allo sprezzo del pericolo sostenuta da autorevoli accademici, il Parlamento italiano ha scelto la via di mezzo del “diradamento” e l’apertura dei lavori d’aula solo per il mercoledì. Quel capolavoro liberty che è l’aula di Montecitorio disegnata da Basile, e la più piccola aula di Palazzo Madama disegnata dal l’ingegner Gabet, furono concepiti, infatti, per una rappresentanza più ridotta e così, mano mano che s’allargava il numero dei deputati e dei senatori, si facevano più stretti i posti ricavati. Insomma oggi stanno seduti uno azzeccato all’altro, in un tête-à-tête necessario che non lascerebbe scampo al contagio.
L’escamotage trovato in questi giorni è stato, dunque, quello di “diradare” le presenze dei parlamentari, lasciando a casa un numero utile a consentire un distanziamento di sicurezza in aula. Un gentlemen agreement dei capigruppo, circostanza che è apparsa irrituale a qualcuno ma che, se non fosse andata a finire sulle pagine dei giornali, probabilmente nessuno avrebbe notato, dato che nelle aule parlamentari la compresenza di tutti gli aventi diritto non si verifica mai ed è più facile che si stia soltanto un filo sulla soglia necessaria a validare il voto elettronico (alla Camera, perché al Senato la maggioranza dei presenti è presunta fino a prova contraria).
Poi c’è stato il contagio “sul campo” di un paio di deputati, tra cui un questore, deputato incaricato di garantire, tra l’altro, la sicurezza interna a Montecitorio (che comprende, pertanto, anche la profilassi sanitaria), e lo spettro del virus in abito blu ha cominciato ad aleggiare nei due Palazzi. La proposta emersa è quella del televoto da casa, come in certi programmi tv. In realtà si tratterebbe di una forma partecipativa al momento della deliberazione che si intenderebbe effettuare mettendo in asse i pc dei deputati con gli strumenti telematici che le tecnologie del Parlamento sono in grado di garantire. Realizzando, a ben vedere, l’Utopia del padre del Movimento 5 Stelle, Gianroberto Casaleggio, quella della digitalizzazione globale e della connessione perpetua. In questo caso si avrebbe una consacrazione simbolica dell’agorà telematica pentastellata proprio nel tempio della Democrazia, il Parlamento, dove la volontà del popolo sovrano si esprime attraverso i suoi legittimi rappresentanti.
Senonché la proposta del voto online non solo non viene da M5S, essendo stata avanzata e condivisa da Pd e Lega, ma addirittura vede contrario proprio il presidente Fico, che del Movimento rappresenta la più alta figura nelle istituzioni della Repubblica. Fico, infatti, difende la lettera dell’art. 64 della Costituzione, che al terzo comma scolpisce il principio per cui “le deliberazioni di ciascuna Camera e del Parlamento non sono valide se non è presente la maggioranza dei loro componenti”. C’è poco da girare attorno: “presenti” vuol dire “fisicamente presenti” per il presidente della Camera. E, francamente, non ci sentiremmo di dargli torto optando per una interpretazione ologrammatica della parola.
Fatto sta che la posizione assunta oggi da Fico sembra alquanto distante dal paradigma digitale antagonista dell’ideologia casaleggiana. E non è detto che sia un male.