Aumentano i numeri di casi di coronavirus in Venezuela. E ora alla crisi economica e umanitaria che vivono i venezuelani da molti anni, si aggiungono i disagi del lockdown. Ieri Nicolás Maduro ha annunciato che da lunedì mattina in sette regioni del Paese, inclusa la capitale Caracas, tutti i movimenti saranno limitati per cercare di contenere la diffusione del virus.
Il leader del regime venezuelano ha confermato 17 casi di Covid-19 in Venezuela, per cui è necessaria la “quarantena sociale” nelle zone con più incidenza di casi importati. Le regioni sono Caracas, La Guaira, Miranda, Zulia, Táchira, Apure e Cojedes.
Maduro non ha escluso che nei prossimi giorni queste misure siano estese ad altre regioni del Paese: “Chiedo a tutti i governatori, sindaci, capi militari e leader civili di preparare tutto il Paese, perché questa misura potrebbe estendersi ovunque”.
“Il Venezuela non è entrato ancora in una fase grave – ha spiegato Maduro -, ma abbiamo valutato la situazione e l’unica forma di fermare i canali di trasmissione e di diffusione è entrando progressivamente ma in maniera accelerata in una fase di quarantena collettiva in tutto il Paese”. Il regime ha sospeso tutte le attività lavorative e scolastiche, tranne trasporto pubblico, negozi di generi alimentari, farmacie e servizi di polizia e militare.
Da alcune settimane, nei porti e negli aeroporti venezuelani si controllava la temperatura ai viaggiatori in arrivo, il che però non ha impedito che due persone provenienti dall’Europa (Italia e Spagna, specificamente) siano entrati in territorio venezuelano contagiati dal Covid-19. Maduro ha anche sospeso tutti i voli aerei dall’Europa e dalla Colombia, dichiarando il Paese in “emergenza sanitaria permanente”.
L’Organizzazione Panamericana della Sanità ha annunciato che invierà missioni di supporto nelle regioni che considera più a rischio, cioè, Venezuela, Haiti, Suriname, Guyana, Nicaragua, Honduras, Guatemala, Bolivia, Paraguay e le isole dei Caraibi. Nel report Indice di Sicurezza Sanitaria Globale, un gruppo di esperti ha posizionato l’assistenza sanitaria del Venezuela al posto 176° di un totale di 195 Paesi.
Banalmente, la principale raccomandazione delle autorità sanitarie in tutto il mondo è di lavarsi le mani frequentemente, ma in molte zone del Venezuela manca proprio l’acqua corrente. In più, il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite, ha informato recentemente che, con un terzo della popolazione in una situazione di crisi alimentaria verificata, molti venezuelano non possono permettersi di acquistare il sapone.
La crisi degli ospedali è un altro vecchio problema del Paese sudamericano: secondo la Bbc, circa il 53% delle istituzioni sanitarie non contano con maschere, per cui il personale rischia facilmente il contagio. Il 92% non ha un protocollo e nessuno ha abilitato una zona di isolamento per i pazienti con coronavirus.
Un altro problema che aggrava la crisi sanitaria in Venezuela è la mancanza di test per la diagnosi. La Bbc sostiene che l’Istituto Nazionale di Igiene ha soltanto 300 kit, un numero insufficiente per gestire l’emergenza.
L’epidemiologo Julio Castro ha scritto sul sito indipendente venezuelano Prodavinci che “il miglior strumento per gestire processi come questo è l’informazione verace”, una pratica molto estranea al regime del Venezuela. Gli esperti temono che, come durante la crisi per il virus zika, le autorità venezuelane non pubblicheranno informazione sufficienti su quanto sta succedendo veramente nel Paese.
In Italia, i medici venezuelani hanno fatto notizia dopo l’annuncio della Regione Lombardia di essere entrata in contatto con Cuba, Cina e Venezuela per la richiesta di sostegno. Tuttavia, Giulio Gallera, assessore al welfare della Regione Lombardia, ha precisato che si tratta di personale già presente sul territorio italiano.
“I medici venezuelani che affiancheranno i nostri professionisti negli ospedali durante l’emergenza ‘coronavirus’ non sono legati all’attuale regime – ha precisato Gallera -, con il quale non è in corso nessuna trattativa. Si tratta invece di operatori sanitari, esuli e autonomi, che fanno capo all’associazione ‘Venezuela, la piccola Venezia Onlus’ da tempo attiva nel nostro Paese, che per motivi burocratici in questo momento non possono esercitare la professione e che si mettono a disposizione del sistema lombardo per rafforzare gli organici delle nostre strutture”.