Per anni, scrivevo lo scorso 18 febbraio su eureporter con Corrado Clini, le sirene della deglobalizzazione hanno invocato il ritorno all’isolazionismo economico, politico e sociale, in cui gli stati sono sistemi relativamente chiusi e godono di ampi spazi di autonomia decisionale. In un contesto internazionale già esacerbato dalla reviviscenza di tensioni nazionalistiche, il coronavirus ha offerto un comodo pretesto per un crescente sentimento anticinese prima, e l’espressione di una più generale xenofobia adesso (la lotta è contro il virus “straniero”). Soprattutto, l’epidemia sembra fornire argomenti per attaccare sia il liberalismo economico che il multilateralismo.
La rapida evoluzione di questi giorni prova il contrario. In un mondo profondamente interconnesso, non sono più possibili soluzioni isolate. Il cambio di passo di Stati Uniti e Gran Bretagna, il maggiore ruolo di coordinamento e indirizzo assunto da Bruxelles nei confronti degli stati membri, sono chiari segnali di questa tendenza.
La crisi sanitaria in atto dimostra come non potremo far fonte né a questa né alle altre incombenti minacce globali (in primis la crisi climatica e ambientale) senza intervenire profondamente sui comportamenti dei singoli, modificando la struttura delle nostre società, e ridisegnando la matrice energetica ed economica mondiale. Sarà uno sforzo titanico. Tutti ne usciremo diversi.
Le soluzioni si trovano nella cooperazione e nel coordinamento globali. Nel caso di una pandemia, ad esempio, sono necessarie la definizione di protocolli sanitari comuni, lo scambio di conoscenze, sforzi e investimenti congiunti per lo sviluppo di materiali, la costruzione di laboratori e il finanziamento di attività di ricerca, la definizione di priorità valide per tutti al di là degli egoismi dei singoli, degli stati e delle imprese. Nel mondo di oggi aiutare gli altri equivale ad aiutare sé stessi.
Non è la globalizzazione la causa della crisi. Bensì le distorsioni causate dal fanatismo del libero mercato, la fede nel laissez-faire economico che ha portato all’erosione dei salari e dei livelli di vita, allo sfruttamento sregolato delle risorse naturali, alla rottura degli equilibri climatici, ambientali e biologici degli ecosistemi del pianeta. La globalizzazione, di converso, è la strada per la ricostruzione coordinata di un sistema economico e di vita più sostenibile.
D’altronde, ricordava “The Guardian” qualche giorno fa, la globalizzazione non è irreversibile.Il mondo ha imbroccato la strada della deglobalizzazione già una volta, tra il 1914 e 1945. Non credo sia necessario far notare come quei decenni coincidano con gli orrori di due guerre mondiali.
Ecco l’articolo: