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Così il Congresso inizia a pesare la propaganda cinese. La versione dell’Aei

“Dobbiamo chiederci: quanto più è diffuso il coronavirus vista la censura cinese?”. Sono le parole con cui due settimane fa Dan Blumenthal, direttore degli studi asiatici e resident fellow dell’American Enterprise Institute, ha aperto il suo intervento in audizione al sottocomitato sul Dipartimento di Stato del Senato di Washington. “Sappiamo che Li Wenliang, Xu Zhangrun, Chen Qiushi, Fang Bin e innumerevoli altri medici, giornalisti e attivisti che hanno parlato e cercato di dire la verità sulla gravità del virus e sulla risposta inefficace sono stati messi a tacere, arrestati e intimiditi”, ha continuato. Il Partito comunista cinese “non vuole che il suo popolo sappia quanto è diffusa la corruzione, la repressione, la cattiva gestione dell’economia e delle crisi”. Oggi come ieri: lo stesso era accaduto, infatti, con l’avaria del 1997 e la Sars del 2005. 

LE DUE DIRETTRICI DI PECHINO

La Cina agisce in due maniere, ha spiegato Blumenthal: reprime il dissenso interno mettendo nel mirino i suoi cittadini e cerca di espandersi sull’estero. Nel modus operandi di Pechino non c’è soltanto la verità messa a tacere. Ci sono false narrative (come la storiella del virus portato a Wuhan dai militari statunitensi), le accuse a Washington di creare il panico limitando i voli e le menzogne sugli ospedali costruiti (come raccontato da DefenseOne.com). Non si tratta di un “bug” del sistema di governo di Pechino, è una “caratteristica”, ha rincarato la dose Blumenthal: “La guerra alla verità è un pilastro fondamentale della strategia di sopravvivenza del Partito comunista cinese” a cui collaborano diverse organizzazioni. Blumenthal ne elenca nove, che si occupano di giornali e pubblicazioni; radio, televisioni e film; editoria; propaganda all’estero; propaganda interna; internet; diffusione (o meno) di libri, video e altre informazioni di matrice cinese all’estero; censura; sentenze penali per chi non rispetta la censura.

LA SVOLTA DI XI SUI MEDIA…

Un ruolo centrale lo giocano i media di regime, in particolare dopo che nel febbraio 2016, ricorda Blumenthal, il presidente Xi Jinping ha annunciato che “tutto il lavoro degli organi del partito devono riflettere le volontà del partito, salvaguarda la sua autorevolezza e unità”. Per questo, ha aggiunto l’esperto, il lavoro dei media cinesi non è informare ma “riportare” le storie che piacciono al Partito e censurare quelle fastidiose. Il bersaglio prediletto dai media di Pechino sono – ovviamente – gli Stati Uniti. Così tutte le critiche sui diritti umani vengono dipinte come posizioni “anticinesi” quindi “razziste”. L’obiettivo è chiaro, ha dichiarato al Senato Blumenthal: “Silenziare queste critiche”. Nel mirino ci sono di conseguenza anche i media statunitensi e i loro reporter in Cina. L’abbiamo visto ieri con la decisione di cacciare tutti i giornalisti di Wall Street Journal, Washington Post e New York Times. Ma già in passato si erano registrati casi di giornalisti statunitensi espulsi e accessi bloccati a giornalisti come il New York Times. L’audizione è datata 5 marzo ma, alla luce di quanto accaduto ieri, è profetica: il Partito comunista cinese di recente, ha spiegato Blumenthal, ha “alzato la posta per cercare di cambiare il modo in cui i media occidentali interpretano il Partito comunista cinese o per indurre all’autocensura. Il tempo dirà se ha avuto effetto. Ma sicuramente sarà più difficile indagare su storie controverse all’interno della Cina o cercare la verità”.

… LE MINACCE FISICHE…

Rientrano nella strategia di Pechino anche le intimidazioni fisiche. Basti pensare che il 57% degli intervistati di un sondaggio del Foreign Correspondents’ Club of China ha lamentato una qualche forma di interferenza, molestia o violenza, l’8% ha parlato di uso della forza fisica, il 26% è stato arrestato o interrogato o ha visto le proprie fonti punite dalle autorità. Molti sono stati presi di mira per il loro sostegno alle istanze democratiche a Hong Kong e a Taiwan. Le stesse ragioni per cui – passando dall’interessarsi ai giornalisti e ai media sul suo territorio all’iniziare a influenzare la cultura popolare all’estero, come ha spiegato Blumenthal – la Cina ha attaccato il mondo del basket americano (sospendendo la trasmissione di partite dell’Nba) e Hollywood (imponendo una censura in cambio dell’apertura dei mercati cinesi ai film stranieri tale per cui ormai è sempre più raro il ricorso a bad guys con gli occhi a mandorla nelle pellicole statunitensi).

… E QUELLE INTERNAZIONALI

Blumenthal ha inoltre illustrato al Senato anche gli sforzi cinesi per rompere le alleanze internazionali degli Stati Uniti: “I media di Stato cinesi attaccano gli alleati americani accusandoli di essere economicamente dipendenti dagli Stati Uniti e mettono in evidenza la fragilità delle relazioni. Il Giappone è un obiettivo frequente. Il China Daily ha anche raccontato i tentativi del Regno Unito di ingraziarsi gli Stati Uniti perché non ha altra scelta dopo aver lasciato l’Unione europea”. E ancora: “Altri temi includono la cessione di sovranità agli Stati Uniti e la dipendenza economica dagli Stati Uniti. Questi temi emergono in articoli ed editoriale sia in lingua cinese sia in lingua inglese su media come China.com, Xinhua, China Daily e Global Times, e vengono condivisi sui social media”. A giudicare dalle recenti mosse cinesi sull’Italia ancora una volta l’audizione di Blumenthal suona profetica.

GLI USA CORRANO AI RIPARI

Che causa può fare Washington? In due parole: soft power. Blumenthal sostiene la necessità di “non adottare una politica estera difensiva” e per questo di rafforzare gli sforzi in lingua cinese per “raccontare la verità al popolo cinese su com’è governato”, dalla salute all’ambiente, dalla corruzione alle ingiustizie. Per fare questo servono public diplomacy e campagne multimediali per “spiegare e convincere”: “Dobbiamo raccontare perché sosteniamo i valori democratici a Hong Kong e Taiwan e come possiamo fare lo stesso anche in Cina”. Servono, conclude Blumenthal, anche sforzi della politica per monitorare la disinformazione cinse negli Stati Uniti, “smetterla di trattare i ‘media’ cinesi come tutto fuorché agenti stranieri” quali lui li ritiene e mettere pressione ai colossi dell’intrattenimento a stelle e strisce avvertendoli del contraccolpo che rischiano di subire dal loro pubblico occidentale alla luce della censure e degli abusi dei diritti umani in Cina.



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