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Un Codice anche per l’Europa

Nel 1943 a Camaldoli fu avviata da un gruppo di personalità note la riflessione sui principi, sui valori e sui fini che la politica economica italiana avrebbe dovuto seguire una volta finita la Seconda guerra mondiale e fosse stata avviata la fase della ricostruzione del Paese. Prese forma allora il cosiddetto Codice di Camaldoli che disegnò i fondamenti delle istituzioni economiche e sociali principalmente pubbliche che sarebbero divenute lo strumento di azione nella economia dei decenni successivi.
A distanza di quasi settanta anni da allora, c’è da chiedersi cosa è rimasto di quei principi e di quella strategia, o, ancora meglio, quali nuovi principi e linee di azione il cambiamento politico ed economico del mondo sta introducendo nella agenda della politica economica dei Paesi più industrializzati.
 
Molti dei principi indicati nel Codice qualche decennio fa, sono fortunatamente entrati da tempo nella coscienza pubblica comune. Oggi in Italia non è più in discussione la proprietà privata, ampiamente riconosciuta, o la economia di mercato, o la tutela del risparmio. Efficienza, controllo, solidarietà, responsabilità, trasparenza sono divenuti i nuovi principi, le nuove parole d’ordine, che vengono spesso ripetute, ma che le condizioni complessive della integrazione europea rendono poco efficaci. Vale a dire che, seppure spesso invocati, questi principi non sono stati la leva per la costruzione di nuove istituzioni capaci di promuoverli nell’ambito di un disegno di politica economica di lungo respiro, e ciò vale sia a livello nazionale, sia a livello europeo.
 
Grazie allo slancio generoso e convinto della società civile, specie fino alla fine degli anni ‘60, l’Italia è andata progredendo rapidamente, ma successivamente a cominciare dagli anni ‘70, è andata avvitandosi in una spirale fatta di statalismo inefficiente e di corporativismo sindacale, che ne hanno frenato la crescita e penalizzato l’occupazione specie giovanile nel sud. Oggi il Bel Paese si trova ad un bivio: o rimanere nel guscio dell’esistente, o guardare avanti per riuscire a cambiare quella parte della sua storia, ancora largamente influenzata dalla tradizione clientelare.
In Italia e in Europa i cittadini si sentono infatti sfidati dai cambiamenti intervenuti negli ultimi decenni nello scenario geopolitico mondiale, e mentre una risposta adeguata richiederebbe istituzioni comuni, si prosegue in ordine sparso, con obiettivi nazionali spesso miopi e privi di lungimiranza, nonostante che il confronto internazionale si manifesti soprattutto nei rapporti di scambio tra i grandi Paesi Usa, Cina, India, Brasile. L’Unione europea in questo contesto è assente come entità unica. Agisce attraverso i singoli Stati, ma non riesce a conquistare quelle posizioni di grande attore che avrebbe se avesse una sola voce.
 
Perché l’Europa e l’Italia escano dalla empasse della pura gestione dell’ordinario per mirare a traguardi più alti, bisogna ritornare alla lezione di Adenauer, Schuman e De Gasperi, che, dopo la Seconda guerra mondiale avviarono il processo che avrebbe portato alla Unione europea. Bisogna, cioè, ritornare a lavorare per far fare un salto in avanti alla integrazione europea. E per quanto questo sia un momento difficile e complesso per le relazioni Ue, porsi come obiettivo una simile prospettiva, non è pura fantasia, un wishful thinking. Non è così, perché non si parte da zero ma si parte dall’euro, la moneta comune, a cui si può affiancare la istituzione mancante, e cioè la “gamba fiscale” comune, intesa come strumento per intervenire non solo per far rispettare l’equilibrio dei conti pubblici nazionali, ma soprattutto in funzione della crescita. Piani comuni a favore delle infrastrutture e della ricerca ridarebbero slancio alla domanda di lavoro, specie giovanile, favorirebbero la caduta del tasso di disoccupazione, influenzerebbero positivamente le aspettative ridando slancio agli investimenti esteri, e per quanto riguarda il nostro Paese al Mezzogiorno. Essi sarebbero il segno di una rinnovata coscienza che l’Europa è una, e va cercando un nuovo assetto istituzionale.
Concepire un simile processo di institutional building, è una sfida che si può vincere.
Un gruppo rappresentativo di personalità italiane ed europee, espressione della società civile, potrebbero proporre una road map di principi a cui ispirarsi e di istituzioni da realizzare nel tempo, (un nuovo Codice di Camaldoli?) perché l’economia del Vecchio continente e dell’Italia possano avere nuovi stimoli e successo nel mondo multipolare.
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