Cosa scriverei se fossi alla maturità? Ai miei tempi svolsi un tema filosofico-letterario, ma quello stesso anno partecipai a un concorso sull’Europa, allora in voga per creare una “coscienza europeista”.
Sostenni che l’Europa delle nazioni era morta, ma quella che allora stava nascendo era l’Europa del capitale senza le masse. Andai in finale, poi non ne ho saputo più nulla.
Ero di sinistra allora, non avevo idea che dopo tanti anni (non dico quanti) sarebbe stata la destra a usare lo stesso slogan. Così va il mondo. Se avessi oggi l’età e dovessi svolgere il tema su stato, mercato e democrazia, direi grosso modo così:
Svolgimento
Siamo stati ingannati. Prima ci hanno raccontato che lo Stato ci avrebbe protetto “dalla culla alla tomba”. E così è avvenuto per lungo tempo. Poi, quando si sono risvegliati i “dannati della terra”, abbiamo scoperto che noi occidentali non avevamo risorse sufficienti per pagare a tutti un pasto gratis. Sono stati gli sceicchi con la guerra del petrolio a farci perdere il paradiso conquistato grazie agli americani e in fondo (per una ironia della storia) anche ai russi che con il loro comunismo hanno congelato metà del mondo.
Finché non è arrivata la globalizzazione, con le nuove risorse create dai petrodollari, la fine dei cambi fissi, il big bang della finanza. Il mercato avrebbe sconfitto la povertà estrema e sparso il benessere in tutto il mondo. E così è stato per un altro quarto di secolo. Ma l’incanto s’è rotto nel 2008: con il crac della Lehman Brothers, i signori dell’universo hanno fatto le valigie (anzi gli scatoloni) e anche i ricchi hanno cominciato a piangere.
Abbiamo capito, così, che le aspettative razionali degli individui producono un effetto irrazionale sulle comunità e sugli Stati. In fondo anche la crisi dei debiti sovrani può essere ricondotta a questo principio di base: la Grecia o l’Italia hanno gonfiato il debito pubblico perché sulla base di razionali aspettative troppi greci e italiani non hanno pagato le tasse o hanno scaricato le loro perdite sulla collettività (ciò vale per le grandi imprese come per le botteghe, per i comuni e per le famiglie, per i politici e per la gente comune, per la “casta” e per il popolo).
Tutto ad un tratto ci siamo ritrovati nudi, vittime di due grandi illusioni, quella dello Stato mamma e quella del mercato papà. E noi, la generazione delle aspettative decrescenti, non sappiamo più a chi dar retta. Luigi Zingales, che ancora agita il mercato perfetto, diventa un cattivo predicatore. Paul Krugman, che vuole risolvere con la spesa pubblica l’astenia dell’investimento privato, non fa che cucinare ricette stantie. Dovrebbe ricordare il suo maestro John Maynard Keynes quando ammoniva che siamo tutti vittime delle idee del passato. Lo sono anche lui e Zingales, come quelli che evocano le età premoderne con la decrescita felice alla Serge Latouche, echeggiando il giovane Karl Marx per il quale il comunismo era l’Eden dove tutti vivono di caccia e di pesca in perfetta libertà.
Non dicono nulla alla mia generazione nemmeno i predicatori della democrazia contro “la dittatura dei mercati”: il mercato è manipolato da poche lunghe mani, ma comunque resta il frutto di una miriade di scelte individuali; mentre la macchina statale viene gestita da un’élite, non sempre selezionata dagli elettori, che persegue interessi particolari, non quelli di tutti i cittadini (James Buchanan e i teorici della scelta pubblica hanno veramente detto cose fondamentali riprendendo Maffeo Pantaleoni e Vilfredo Pareto). Democrazia, Stato e mercato sono frontiere mobili da verificare in ogni momento.
E allora? Allora dobbiamo liberarci dai paradigmi che non funzionano e ottenebrano le nostre menti. Non per tornare a uno sterile livello zero. Al contrario, per fare un’opera di selezione, prendendo dalla cassetta degli attrezzi preparata dai nostri genitori (anzi meglio ancora da nonno Keynes e nonno Friedman, senza trascurare il prozio Einaudi o il vecchio Hayek, noioso e brontolone come ogni buon tedesco) quel che serve per affrontare i problemi attuali: la disoccupazione, un welfare che rappresenta una grande conquista civile ma non può più essere fornito solo dallo stato (i cinesi debbono costruirlo ex novo e hanno detto che cercano una terza via tra l’America e la Scandinavia), una distribuzione della ricchezza che ostacola lo sviluppo (l’eutanasia del rentier è ancora un bello slogan), un nuovo salto generazionale, fondamentale per rivitalizzare le stanche società occidentali.
Noi, nipoti del baby boom, dovremmo diventare protagonisti di una rivoluzione culturale, senza piangerci addosso come i nostri fratelli maggiori, ma rimboccandoci le maniche. Si sente dire che i giovani non hanno futuro, ma il futuro non è un bene in concessione, nessuno ce lo deve dare, dobbiamo conquistarlo.
Stefano Cingolani