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Cosa cambia tra Usa e Vaticano con il nuovo ambasciatore Ken Hackett

L’istantanea è quella di due uomini a braccetto, sotto la pioggia a Fairbanks in Alaska, nel maggio 1984. Ronald Reagan e Giovanni Paolo II nel gennaio dello stesso anno hanno concluso l’accordo per l’apertura di relazioni diplomatiche ufficiali tra Stati Uniti e Santa Sede, e ora, il primo di ritorno dalla Cina e il secondo in transito per la Corea del Sud, conversano amabilmente. Oltre la cortina sta per iniziare l’era di Gorbaciov e della perestrojka, la guerra fredda, anche se nessuno può ancora immaginarlo, è sul punto di finire e l’Unione Sovietica di implodere su se stessa. Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti, eppure i due “imperi paralleli”, come qualcuno li ha definiti accentuando la proiezione globale che, soli, sarebbero in grado di sviluppare, non sempre hanno marciato nella medesima direzione, arrivando a incontrarsi e scontrarsi – dalle battaglie su alcuni temi etici a quelle sull’intervento armato in Iraq, per rimanere agli episodi più recenti – pur all’interno di un rapporto che, per necessità e per virtù, per storia e per cultura, non può non vederli lavorare insieme.

La nomina di Ken Hackett

Anche oggi, con la nomina del nuovo ambasciatore in Vaticano, Ken Hackett, che deve ora essere ratificata dal Senato di Washington, Barack Obama sembra voler tendere la mano alla gerarchia d’Oltretevere. Non pochi sono stati infatti in questi anni i contrasti legati soprattutto alla libertà religiosa e al cosiddetto “Obamacare” sulla sanità nazionale, che obbliga i datori di lavoro, anche quelli “religiosi”, a pagare assicurazioni sanitarie comprendenti aborto e contraccezione, e a proposte di legge, duramente contestate dalle associazioni pro-life, dai vescovi americani e dalla Chiesa, come quella del governatore democratico di New York Andrew Cuomo di rendere “diritto fondamentale” l’aborto, eliminando ogni limite temporale per lo stesso.

Chi è il nuovo ambasciatore Usa in Vaticano

Hackett, che prende il posto del professore e teologo (una curiosa somiglianza professionale con Benedetto XVI) di origine cubane, Miguel H. Diaz, vanta un curriculum di tutto rispetto nel mondo cattolico: laurea al Boston College, gestito dai gesuiti, inizi nei Peace Corps in Africa e successivi quarant’anni, venti dei quali in qualità di presidente, al Catholic Relief Services, la più grande agenzia americana di aiuti umanitari e sviluppo, strettamente legata alla Conferenza episcopale Usa e impegnata su diversi fronti, dal Medio Oriente, all’Africa ad Haiti. Non sempre la forma è sostanza, ma certo una personalità che ha lavorato lungamente “on the field” proprio sui temi cari a Papa Francesco (povertà, fame, periferie) un qualche vantaggio dovrebbe averlo.

Cosa cambia

E se sugli aspetti legislativi interni sarà la leadership della Conferenza episcopale locale a muoversi (negli Stati Uniti attraverso il carismatico cardinale Timothy Dolan), sulla scia di quanto Bergoglio ha deciso anche nei rapporti con altri paesi, vedi l’Italia; per quanto riguarda le questioni di carattere “universale”, che coinvolgono in toto il disegno di una Chiesa che si fa povera e va verso i poveri e le periferie, geografiche ed esistenziali, il Papa vorrà contare su persone di fiducia che ne condividano obiettivi e missione. Nonostante la continuità dottrinale (e come potrebbe essere altrimenti) degli ultimi pontificati, il cambiamento c’è, e Obama deve provare a cavalcarlo se, sul piano nazionale, vuole coprire il Partito democratico dal ritorno vincente dei repubblicani.

Obama e i vescovi Usa

I vescovi americani finora non hanno avuto atteggiamenti particolarmente benevoli nei suoi confronti, ma anche il gradimento recentemente raggiunto da alcuni di loro all’interno delle Mura vaticane, potrebbe favorire la realizzazione di un clima di ritrovata distensione e positivi compromessi sui temi più caldi. Non è un mistero, del resto, che l’ultimo conclave abbia registrato per la prima volta nella storia della Chiesa un ruolo di primo piano giocato da parte dei porporati americani, fino a portare nel gruppo dei papabili, prima dell’extra omnes, anche gli arcivescovi di New York e di Boston; né che, probabilmente, ci possa essere lo zampino degli stessi cardinali Timothy Dolan e Sean Patrick O’Malley, usciti visibilmente soddisfatti dalla Cappella Sistina, nell’elezione di Francesco. Proprio O’Malley, tra l’altro, è stato inserito dal Pontefice nel gruppo degli otto consiglieri – guidato dall’honduregno Oscar Andres Maradiaga, presidente della Caritas Internationalis e dato in pole per il posto di segretario di Stato, assieme all’italiano Giuseppe Bertello – che dovrà coadiuvarlo nel progetto di governo e riforma della curia vaticana e dello Ior, vittime negli ultimi mesi di accuse legate a problemi intestini, affari di mala gestione e casi eclatanti come quello dell’estromissione di Ettore Gotti Tedeschi dal vertice dell’Istituto per le Opere di Religione.

La chance di Hackett

Se, a questo punto, gli Stati Uniti sapranno capitalizzare la posizione di primo piano raggiunta, si vedrà. La diplomazia è già al lavoro, perché i banchi di prova non si faranno attendere: e Hackett, la cui scelta è stata salutata dall’arcivescovo ausiliare di Baltimora Denis J. Madden come “una grande notizia”, ha una chance da non sprecare.


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