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Zhenhua, i cinesi ci spiano perché hanno letto Tucidide. L’analisi di Borghi (Copasir)

Di Enrico Borghi

Sta facendo discutere la vicenda degli “Zhenhua papers”, ovvero la grande profilatura – illegale – compiuta in Cina nei confronti di numerosi esponenti occidentali.

È giusto che gli organi preposti, e il Parlamento anzitutto, vadano a fondo di questa vicenda. E non mancheranno iniziative e approfondimenti in tal senso a vari livelli. Però dobbiamo porci una riflessione, e cioè capire il senso di quello che sta accadendo.

Perché ci spiano così? La risposta, a mio avviso, è semplice: perché hanno letto Tucidide.

Per i cinesi, infatti  la “trappola di Tucidide” è quasi vangelo. Xi Jinping l’ha citata più volte nei propri discorsi, ammonendo gli occidentali a non cadere nell’errore compiuto all’epoca. Secondo Tucidide, infatti, furono l’ascesa di Atene e la sua capacità di egemonia culturale oltre che politica ad ispirare la paura e la reazione di Sparta, e quindi a rendere la guerra inevitabile.

Lo studioso Graham Allison, analizzando la guerra del Peloponneso (V secolo a.C.) e la dinamica della “trappola di Tucidide”, ha studiato 16 casi negli ultimi 500 anni nei quali “l’ascesa di una grande nazione ha minacciato la posizione della potenza dominante”. In ben 12 di questi casi, la guerra è stata lo sbocco della situazione.

Perchè Xi cita più volte Tucidide? Perché intende mandare un messaggio molto chiaro all’Occidente. La lezione da trarre, secondo questa analisi, è che la potenza di declino (America-Sparta) deve rassegnarsi a fare spazio alla potenza in ascesa (Cina-Atene), perché nel mondo c’è spazio poter tutti e il progresso di una nazione non significa andare a scapito di altre.

Secondo Xi, se l’America si mobilitasse per fermare la Cina, cadrebbe nella “trappola di Tucidide” che convinse l’Impero britannico a credere che il Reich guglielmino rappresentasse una minaccia fatale per la propria sopravvivenza, fino a precipitare nella Prima Guerra Mondiale.

Non si tratta qui di stabilire i buoni e i cattivi, né tantomeno di far scattare una sorta di determinismo storico che non ha alcuna meccanica in sé: sono infatti le decisioni della politica e delle leadership a fare la differenza, evitando che le rivalità degenerino in guerre. Ma che vi sia una rivalità tra una potenza che si ritiene in potente ascesa – la Repubblica Popolare Cinese – e una che non rinuncia a farsi iscrivere al rango di decadente – gli Stati Uniti d’America – è un fatto.

Così come lo è l’obiettivo strategico-militare di lungo periodo che sta dietro al riarmo cinese: Xi Jinping ha l’obiettivo di espellere gradualmente gli Usa dall’area asiatico-pacifica, trasformando quella zona del pianeta in una sorta di “cortile di casa” cinese.

Nei fatti, sarebbe un ritorno alla concezione dell’Impero Celeste, cara alla rispolverata tradizione cinese, come centro di un vasto sistema di relazioni, circondato da Stati feudatari, vassalli e satelliti. Pechino punta, insomma, ad una sorta di nuova “dottrina Monroe” sul continente asiatico e sull’area del Pacifico, un’area che arriva al 50 per cento del Pil mondiale (e dove sono peraltro presenti democrazie o sistemi politici che hanno scelto di stare politicamente e militarmente dalla parte dell’Occidente).

Dentro questa nuova dottrina strategico-militare, vi è salto strutturale tra la Cina post-Mao e quella di oggi. Dal 1979 ad oggi, nel periodo che va dalle riforme di Deng Xiaoping alle Olimpiadi del 2008, la Cina introdusse elementi di mercato e di capitalismo in un sistema autocratico e a partito unico partendo da un assunto semplice.

La liberaldemocrazia -era la tesi di Deng- era nata e fiorita in Occidente, e quindi appare adatta ai paesi che ne sono stati la culla. La Cina, per dimensioni, per diseguaglianze interne, per traduzione confucianesimo, è diversa, e quindi il “socialismo cinese” (una miscela in realtà di autoritarismo, paternalismo confuciano, tecnocrazia e meritocrazia) appariva come il sistema adatto a governare un paese così vasto, complesso e popolato.

Il messaggio per trent’anni dalla Cina è stato: a ciascuno il suo. A Occidente i sistemi liberal-democratici, a Oriente il comunismo riformato, dentro una propensione della Cina  – dopo l’ingresso nel WTO avvenuto nel 2001 – di trasformarsi in mercato a basso costo delle multinazionali occidentali. La “fabbrica del mondo”, insomma.

Oggi non è più così. L’obiettivo esplicito della Cina di Xi Jinping, convinto assertore della superiorità del suo modello politico, è quello di dimostrare al resto del mondo l’efficienza e la superiorità del modello comunista e nazionalista cinese. E tutto questo coincide con una fase in cui in tutto l’Occidente la fiducia nella democrazia è ai minimi storici.

Oggi abbiamo una superpotenza sfidante che non solo è nazionalista nel senso europeo del termine, ma si definisce Stato-civiltà prima ancora che Stato-nazione, riprendendo il tema del “mandato celeste” come costante confuciana degli imperatori cinesi. La Cina, in altri termini, sta attuando una ricostruzione della propria complessa eredità del passato, e punta alla leadership in un nuovo ordine mondiale. È un tema che sta alla base della nuova “Guerra fredda” globale.

E in questo, l’Italia è tornata ad essere una frontiera. Per questo siamo sotto la lente di osservazione. E per questo dobbiamo agire, di conseguenza.



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