Uno che mastica pane e politica da sempre, e che si è fatto le ossa nella vecchia Fgci, non parla mai a caso. E dire, a solo una settimana dal voto, che non è da escludere un “riassetto” della compagine governativa subito dopo la tornata elettorale, è molto più che una semplice previsione. Il “non escludo” in bocca a un vicesegretario del Partito democratico, se non è proprio una certezza, è comunque qualcosa che molto gli si avvicina. E hai forza a dire che “fare un tagliando” non è in questo caso una questione di uomini ma solo una soluzione imposta da una “fase nuova” che richiede “capacità progettuale” per poter spendere al meglio i 209 miliardi in arrivo dall’Europa.
Se non di uomini, il “rimpasto”, così come è sempre stato, è un problema di equilibri e di bilanciamenti: sia all’interno di ognuna delle forze politiche coinvolte, sia nei rapporti fra di esse. È evidente che esso è testimonianza di un’insoddisfazione del Pd che è tanto cresciuta da non farsi timore di venire alla luce proprio ora che la battaglia con il centrodestra entra nella fase finale.
Quasi come se all’insoddisfazione si unisse la rassegnazione, la quasi sicurezza cioè di una vittoria nelle urne dell’avversario. L’insoddisfazione è però soprattutto nei confronti dei Cinque Stelle, la forza di maggioranza relativa con la quale, giusto un anno fa, ad onta dell’ostilità reciproca sfociata spesso anche in denunce e querele, si decise di fare un governo. Insoddisfazione per un’alleanza che non è mai partita e per un rapporto il cui bilancio, fatta pure la tara della diversa forza parlamentare, a un anno di distanza è tutta a svantaggio dei piddini.
Nonostante le lotte interne e il verticale tracollo dei consensi, il Movimento ha però imbrigliato e impantanato il partito di Zingaretti, che non è riuscito a far passare nemmeno una delle leggi a cui teneva: dallo smantellamento dei salviniani decreti di sicurezza alla legge contro l’omotransfobia (nemmeno calendarizzata a settembre), da una riforma elettorale e dei regolamenti parlamentari che smorzasse l’effetto (volutamente) antiparlamentaristico della legge sul taglio dei deputati ad un’accettazione rapida ed immediata del “fondo salva Stati” per la sanità (il cosiddetto Mes).
Il tutto in una situazione in cui il presidente del Consiglio ha spesso giocato un’autonoma e personale partita, facilitato anche dalla non presenza nel governo del leader piddino, comunque sempre accorta a non forzare la mano coi grillini (e soprattutto con Beppe Grillo in persona). Più in generale, come ha sottolineato Piero Ignazi stamattina su Repubblica, al Pd sembra mancare proprio quell’idea di Paese che, nelle intenzioni dell’establishment, avrebbe dovuto sopperire alla sprovvedutezza dei grillini. La stessa opzione che Ignazi suggerisce per il coté economico, che può essere definita di sinistra sinistra e non di riformismo, in verità è quella che è stata fatta propria dall’attuale classe dirigente del partito. Più però per reazione alla scissione di Italia Viva, che preside il terreno (fra l’altro oggi non proprio popolare) del riformismo e del “liberalismo di sinistra”, e per un effetto di allineamento al sempre più evidente madurismo antimercatista dei Cinque Stelle, che non per propria riflessione o convinzione. Né oggettivamente ci sembra che quella di un neostatalismo spinto possa essere la soluzione ai problemi seri di crisi economica e di produttività che l’Italia si trova ad affrontare in questo frangente. Una stessa mancanza di idee sull’idea di Paese è presente però nel Pd nel campo delle riforme di sistema. Rispetto, ad esempio, al referendum di domenica prossima, che con la più che probabile vittoria del sì, i grillini si intesteranno senza che il Pd potrà minimamente partecipare alla “festa”, ciò che più impressiona sono non tanto i funambolismi con cui si è giustificata una scelta favorevole dopo ben tre voti contrari quanto l’incapacità di porre e rispondere all’unica domanda che politicamente conta: rispetto agli attacchi sferrati al parlamentarismo da più parti, il Pd come si pone?
Ovviamente, dopo le dichiarazioni di Orlando, e il sostanziale allineamento su di esse dei leader di maggioranza (compreso Di Maio), sui giornali e nel dibattito di palazzo e sottopalazzo è cominciato il totonomine. È un classico. Sembra che la Lamorgese e la Azzolina sono gli attuali ministri che più rischiano, mentre dovrebbe fare il suo ingresso nella compagine governativa la sempiterna (e ora fidanzatissima) Maria Elena Boschi. La cosa più paradossale è che questi riti da vecchia repubblica dei partiti siano ritornati in auge al tempo di un governo dominato da una forza che ad essi voleva mettere termine e che, con essi, voleva abbattere tutta la “Casta”.