La politica estera si può fare con roboanti dichiarazioni, con spettacolari sfilate o esercitando una teutonica politica di potenza. L’Italia non ha un suo arsenale nucleare, non è nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e l’ultima guerra mondiale l’ha persa. Eppure ha una tradizione di tutto rispetto nelle relazioni internazionali. Grazie alla “scuola” della Farnesina. Suo ultimo iscritto è Luigi Di Maio, il ministro degli esteri più giovane della storia repubblicana. Dismessi i panni di capo politico del Movimento 5 Stelle (ma non di figura chiave del movimento), ha vissuto con intensità i suoi primi dodici mesi da responsabile della diplomazia italiana. In questa intervista esclusiva affronta tutti i principali temi dell’agenda internazionale, dalla Libia alla Cina passando per il Venezuela e la Russia. Nessun riferimento alla politica interna e nessuna dichiarazione clamorosa. Una buona notizia che conferma l’attitudine della nostra politica estera che predilige l’arte del cucire all’esercizio dello strappo.
Ministro, un anno fa questo governo è nato con il proposito di riportare l’Italia sui binari ordinari della sua politica estera. A distanza di un anno qual è il suo bilancio?
Penso che l’obiettivo possa dirsi raggiunto. È stato un anno eccezionale, segnato da un pandemia che ha sconvolto il mondo, e dimostrando quanto importante sia al giorno d’oggi la cooperazione internazionale per fronteggiare le formidabili sfide che ci troviamo davanti. Nel corso di questi 12 mesi abbiamo dato nuovo slancio alla proiezione internazionale e alla credibilità dell’Italia. Abbiamo dimostrato che l’Unione Europea può essere migliorata e riformata lavorando fianco a fianco con i partner che condividono i nostri stessi interessi; che il dialogo è un valore aggiunto e che le nostre alleanze e la nostra collocazione internazionale nell’Alleanza atlantica è più solida che mai. Ma soprattutto abbiamo riportato l’Italia ad essere un attore di riferimento nella regione del Mediterraneo allargato.
Fra i tanti conflitti che affliggono la comunità internazionale, uno latente da tempo è pronto a esplodere a poche miglia dalle coste italiane, nel Mediterraneo orientale. L’Europa ha preso una posizione forte verso la Turchia. L’Italia ha rapporti storici sia con la Grecia che con la Turchia, alleato nella Nato. Come dovrebbe porsi?
Seguiamo con la massima attenzione quanto sta accadendo nel Mediterraneo orientale; da ultimo, ho potuto confrontarmi con i miei omologhi Ue su questo tema la settimana scorsa a Berlino. La posizione dell’Italia sull’argomento non è cambiata: abbiamo dimostrato la nostra solidarietà a Grecia e Cipro, ma crediamo che la fermezza nel condannare le iniziative unilaterali vada accompagnata all’impegno nell’evitare una dinamica escalatoria. A tal fine, sosteniamo il mandato dell’Alto Rappresentante Borrell per individuare un approccio più costruttivo, che miri ad affrontare le cause profonde delle attuali tensioni, e cioè la definizione fra Atene ed Ankara delle rispettive giurisdizioni marittime, nonché la questione cipriota.
La Turchia di Erdogan ha conquistato un ruolo di primo piano in Libia. Alcuni esponenti dell’opposizione ritengono che abbia sottratto all’Italia i suoi spazi a Tripoli. Lei cosa risponde?
È innegabile che la Turchia abbia assunto un ruolo crescente nella crisi libica, stabilendo una presenza solida nel Paese. Ma la Libia non è un gioco a somma zero: il nostro impegno per la stabilizzazione del Paese resta prioritario e continuiamo a mantenere un ruolo di primo piano nel Paese.
Pochi giorni fa (1° settembre, ndr) ho svolto una missione a Tripoli e in Cirenaica dove ho incontrato il presidente Serraj, il presidente dell’Alto Consiglio di Stato Meshri, il presidente della Camera dei Rappresentanti di Tobruk Aghila Saleh e il presidente della Noc Sanallah. La missione ha permesso di confermare ulteriormente l’impegno dell’Italia per una soluzione politica della crisi ed è stata anche un’occasione per dare nuovo impulso alla cooperazione economica bilaterale e agli investimenti italiani in Libia, nella prospettiva della ricostruzione del Paese.
In Libia il cessate-il-fuoco ha dato il via a una road map per tenere nuove elezioni. Crede che possa funzionare? Ritiene che il ruolo del maresciallo Khalifa Haftar costituisca una minaccia per il percorso individuato?
La mia missione in Libia del 1° settembre è avvenuta a pochi giorni dalle dichiarazioni parallele (21 agosto, ndr) con le quali il presidente Serraj e il presidente Aghila Saleh hanno annunciato l’immediata cessazione delle ostilità nel Paese. Le due dichiarazioni presentano divergenze, ma anche punti in comune, come la richiesta di riattivazione della produzione petrolifera, per la quale ci aspettiamo che Bengasi dia seguito agli annunci fatti.
Ma proprio questa intesa tra Serraj e Saleh apre una nuova finestra di opportunità che va assolutamente colta. Nei miei incontri con Serraj e Aghila ho infatti confermato il pieno sostegno dell’Italia per una soluzione politica e inclusiva della crisi e incoraggiato i miei interlocutori a tradurre in fatti concreti gli impegni annunciati con le loro dichiarazioni.
È ora è assolutamente prioritario che si raggiunga un accordo sul cessate il fuoco effettivo e duraturo, che le parti stanno attualmente negoziando, grazie alla mediazione dell’Onu, in seno alla Commissione Militare Congiunta 5+5, e che cessi al più presto il blocco della produzione petrolifera. In questi ambiti ci aspettiamo che anche il Generale Haftar possa dare un contributo costruttivo.
Al largo delle coste libiche c’è una missione Ue che batte bandiera italiana: Irini. Qual è il suo bilancio e cosa pensa della sua possibile collaborazione con la missione Sea Guardian della Nato?
Irini è un segnale tangibile del contributo europeo alla risoluzione della crisi libica ed all’attuazione dell’embargo sulle armi oltre che al contrasto dei traffici illegali di prodotti petroliferi dalla Libia. I risultati dei primi tre mesi di attività operativa sembrano confermare la bontà delle scelte fatte nonché la neutralità della missione rispetto alle parti in conflitto. Irini, infatti, ha effettuato oltre 500 richieste di bandiera e inoltrato più di 10 rapporti speciali al Panel of Experts delle Nazioni Unite sulla Libia, dai quali emerge un bilanciamento nelle sospette violazioni riscontrate. In ogni caso, l’incisività dell’Operazione Irini potrebbe essere sicuramente migliorata tramite un accordo tecnico per lo scambio informativo con l’Operazione Sea Guardian.
Il Nord Africa è scosso da altre, preoccupanti crisi regionali, dall’Algeria al Marocco e alla Tunisia. Che ruolo può avere l’Italia nella loro stabilizzazione?
L’impegno dell’Italia a favore della stabilità del Nord Africa è massimo. Nonostante le limitazioni poste dalla pandemia all’azione diplomatica, non abbiamo mai smesso di adoperarci per il rafforzamento delle relazioni con i Paesi della sponda Sud del Mediterraneo. Lo dimostrano i numerosi contatti telefonici con i miei omologhi di Algeria, Tunisia e Marocco e la mia missione a Tunisi, insieme alla ministra Lamorgese e ai Commissari europei Varhelyi e Johansson dello scorso 17 agosto.
L’investimento del nostro Paese nell’area non riguarda solo il fronte securitario e della stabilizzazione politica, ma anche la dimensione economico-commerciale. Stiamo, in particolare, lavorando per un approfondimento della collaborazione con i Paesi del Maghreb focalizzandoci sull’innovazione tecnologica e le start-up.
Un altro scenario di crisi che vede l’Italia in primo piano è il colpo di Stato in Mali. Crede che gli impegni messi in campo dalla comunità internazionale siano sufficienti a eradicare la minaccia jihadista e ad evitare che si trasformi in una crisi continentale?
Seguiamo con molta attenzione e preoccupazione quanto accade in Mali. Il Sahel è per l’Italia un’area strategica per la lotta al terrorismo e alla criminalità transnazionale oltre che per un’efficace gestione del fenomeno migratorio irregolare. L’Italia, insieme ai partner europei, sostiene il delicato negoziato intrapreso dall’Ecowas e dall’Unione Africana a Bamako per una transizione verso un governo a guida civile, che auspichiamo possa realizzarsi in tempi brevi, rafforzando la fiducia dei cittadini maliani nelle proprie istituzioni. Il ruolo guida che le organizzazioni regionali, che l’Italia sostiene attivamente, hanno assunto nella gestione delle crisi politiche locali è un fattore decisivo per il successo e la sostenibilità delle soluzioni prospettate.
Proseguendo ad Est, il Libano, Paese dove l’Italia è presente in termini umanitari e militari, vive un momento di grave instabilità politica e sociale.
Il Libano sta in effetti attraversando una fase molto complessa: una grave crisi economica, una situazione epidemiologica preoccupante e le conseguenze della tragica esplosione avvenuta a Beirut, cui si sono aggiunte le dimissioni del governo. L’auspicio adesso è che il Paese possa vedere a breve la nascita di un governo in grado di affrontare le tante sfide che lo attendono.
In questo difficile contesto, l’Italia vanta una presenza “storica”. Oltre che con la partecipazione alla missione Unifil con quasi 1.000 militari su un totale di 10.000, ed un comandante italiano dal 2018, siamo presenti anche con la missione bilaterale Mibil, che conduce programmi di addestramento delle forze di sicurezza libanesi. Sul fronte umanitario, dopo la devastante esplosione al porto di Beirut, abbiamo assicurato tre voli umanitari e due navi che hanno trasportato squadre di soccorso, un ospedale da campo e vario materiale.
Il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha da poco rinnovato il mandato della missione Unifil, con alcune modifiche connesse alle forti critiche da parte di Israele e Stati Uniti per un approccio ritenuto troppo morbido verso Hezbollah. Condivide questi timori?
Il recente rinnovo del mandato di Unifil si è rivelato particolarmente complesso quest’anno, ma il compromesso raggiunto ci sembra equilibrato: sono state introdotte alcune delle modifiche richieste senza alterare significativamente il mandato di Unifil e il suo livello di forza in un momento in cui è più necessaria che mai una missione che riesca a mantenere la calma sulla Blue Line.
Gli Stati Uniti chiedono di rinnovare il prossimo ottobre l’embargo Onu contro l’Iran. Che posizione dovrebbe assumere l’Ue e che ruolo può avere l’Italia nella sua definizione?
L’Ue, Italia inclusa, condivide le preoccupazioni americane sulla scadenza dell’embargo, ma intende scongiurare una nuova escalation di tensioni e la fine del Jcpoa. Come ha ricordato l’Alto Rappresentante Borrell pochi giorni fa, l’intesa rimane un pilastro chiave dell’architettura globale di non proliferazione, in grado di contribuire alla sicurezza regionale.
Un accordo storico fra Emirati Arabi Uniti ed Israele ha riavviato i rapporti diplomatici fra i due Paesi sotto l’egida degli Stati Uniti. Crede che l’Italia possa usare il suo soft power nella regione per convincere altri Paesi a seguire l’esempio di Abu Dhabi?
L’annuncio, lo scorso 14 agosto, di una normalizzazione dei rapporti tra Israele ed Emirati Arabi Uniti rappresenta un importante sviluppo per gli equilibri del Medio Oriente. L’Italia ha sempre mantenuto una posizione equilibrata e dialogante con il mondo arabo e con Israele, cosa che ci ha permesso di guadagnare una credibilità e una autorevolezza, che ci consentono oggi di sostenere la causa della distensione e del rilancio di relazioni positive fra i Paesi della regione. Vorrei però porre forte enfasi su un fondamentale aspetto di questa “normalizzazione”.
Prego.
Il rilancio del processo di pace tra Israele e i palestinesi. L’impegno – assunto da Israele nel quadro dell’accordo con gli Eau – di sospendere le annessioni disinnesca una possibile minaccia per il processo di pace e la soluzione dei due Stati. Il nostro auspicio è che la sospensione possa assumere carattere permanente e favorire una ripresa dei negoziati tra le parti, sulla base di una soluzione a due Stati giusta e sostenibile che possa davvero costituire una svolta per la stabilità e lo sviluppo di tutto il Medio Oriente. L’Italia – insieme alla Ue – è pronta a fare ogni sforzo per facilitare un rilancio del dialogo tra palestinesi e israeliani.
Fra Italia e Russia esistono consolidati rapporti diplomatici. Il caso dell’avvelenamento di Alexei Navalny e la crisi in Bielorussia chiedono all’Italia e ai Paesi Ue di esprimere una posizione chiara. Secondo lei come si può conciliare il rapporto con la Russia con i valori occidentali e quali sono le linee rosse da rispettare?
Il dialogo con la Federazione Russa sui dossier e le sfide più importanti sul piano globale e regionale è fondamentale e si inserisce nella tradizione della nostra politica estera. Nello specifico della Bielorussia mi faccia dire però che siamo molto preoccupati. Da subito abbiamo sostenuto l’adozione di una risposta unitaria dell’Ue che ha definito alcuni chiari principi: solidarietà al popolo bielorusso; non riconoscimento delle elezioni presidenziali; impegno per l’indizione al più presto di nuove elezioni rispettose dei più elevati standard internazionali; adozione di sanzioni mirate a individui ritenuti responsabili delle violenze e della falsificazione dei risultati; pieno sostegno al dialogo interno fra Lukashenko e le forze di opposizione. Ho passato questi messaggi in un colloquio telefonico che ho richiesto con il ministro degli Esteri bielorusso Makei. Gli ho espresso la preoccupazione italiana ed europea per la situazione nel Paese ed ho auspicato l’avvio di un dialogo politico fra il presidente Lukashenko e le forze di opposizione, la liberazione dei prigionieri politici e l’archiviazione dei procedimenti penali contro l’opposizione.
E per il caso Navalny?
La questione Navalny è più delicata. Quanto accaduto ci indigna profondamente e condanniamo quello che consideriamo un crimine e che chiama in causa la capacità e la volontà del sistema politico russo di assicurare alla giustizia i responsabili.
Un’altra regione attraversata da turbolenze è il Sud America. In Venezuela, Paese martoriato da una crisi economica e un conflitto civile senza precedenti, vive una grande comunità di italiani. L’Italia, pur senza riconoscere il governo autoproclamato di Juan Guaidò, potrà mai esprimere una posizione di chiara condanna contro Nicolas Maduro?
L’Italia condanna la deriva autoritaria in Venezuela e si riconosce nelle dichiarazioni dell’Unione Europea, da quella adottata all’indomani delle contestate elezioni presidenziali del maggio 2018 a quelle più recenti che a giugno di quest’anno hanno stigmatizzato le misure adottate dal Tribunale Supremo di Giustizia ai danni dei partiti di opposizione. Tengo a ricordare che l’Italia non riconosce la validità delle elezioni presidenziali del maggio 2018, né la legittimità democratica del vincitore, Nicolás Maduro. Ci siamo da subito uniti a quanti nella comunità internazionale chiedono nuove elezioni presidenziali nei tempi più rapidi possibili.
Non bisogna confondere il mancato riconoscimento di Juan Guaidò anche come Presidente della Repubblica con una posizione di equidistanza dell’Italia, di supporto a Maduro, o peggio ancora di indifferenza di fronte alle violazioni dei diritti e delle libertà fondamentali. Il nostro impegno, anche come parte del Gruppo Internazionale di Contatto, resta quello di promuovere sforzi per la ricerca di una soluzione pacifica, democratica e condivisa alla crisi politica, economica ed umanitaria attraversata dal Venezuela.
In Venezuela come nel caso di altre crisi internazionali un apporto importante è arrivato dalla diplomazia del Vaticano. Qual è il ruolo della Santa Sede nella risoluzione di queste crisi e quale collaborazione si può instaurare con il governo italiano in questo campo?
La Santa Sede ha tradizionalmente svolto, con grande discrezione ed intelligenza, un ruolo importante nel quadro di diverse situazioni critiche in particolare nello scenario latinoamericano, dove la popolazione è prevalentemente di fede cattolica. Per parte nostra siamo aperti al dialogo ed alla collaborazione con tutti gli interlocutori che possano svolgere un ruolo di facilitatori nella ricerca di una soluzione alla crisi, che in ogni caso non potrà che nascere all’interno del Venezuela.
Un tema che sta particolarmente a cuore della Santa Sede così come degli Stati Uniti è quello della libertà religiosa. In molti Paesi autoritari tutt’oggi le minoranze religiose sono perseguitate, spesso lontano dai riflettori della comunità internazionale. Come può l’Italia dare il suo contributo per denunciare queste violazioni dei diritti umani e delle libertà fondamentali?
Da molti anni l’Italia è in prima linea per la protezione della libertà di religione o credo. Si tratta anche di uno dei temi prioritari del nostro mandato in Consiglio Diritti Umani delle Nazioni Unite per il triennio 2019 – 2021.
In questo senso svolgiamo un ruolo di primo piano a livello internazionale, insieme ai Paesi like-minded per denunciare violazioni e abusi della libertà di religione o credo ed incoraggiare tutti i Paesi a fare dei passi avanti in quest’ambito. Da ultimo, abbiamo promosso una dichiarazione congiunta con altri 13 Paesi membri del Gruppo di contatto internazionale sulla libertà di religione o credo (Icg-Forb) sul Sudan, per appoggiare il processo democratico e di riforme intrapreso dal Governo di transizione, che ha visto progressi in tema di libertà di religione e credo, con l’inserimento in Costituzione del diritto alla libertà di religione e l’abolizione dell’apostasia come reato.
Attraverso iniziative della Cooperazione allo Sviluppo, inoltre, portiamo avanti numerosi progetti per aiutare le persone appartenenti a minoranze religiose nel mondo, in particolare nell’area mediorientale, in cui esse diventano talvolta bersagli di violenze e discriminazioni.
Tra Space Force e nuove armi spaziali, la competizione internazionale si sta spostando sempre di più anche oltre l’atmosfera. È possibile mantenere un uso pacifico dello Spazio? Come?
Sono convinto dell’importanza di garantire un uso pacifico dello spazio e, in tale quadro, la cooperazione internazionale assume un rilievo imprescindibile. L’Italia lavora per valorizzare ogni iniziativa, nei diversi e competenti fori internazionali, volta al rafforzamento della governance internazionale dello spazio e alla definizione di comportamenti responsabili degli Stati per assicurare la sostenibilità e la sicurezza delle attività spaziali. Credo che la Comunità Internazionale sarà chiamata a dedicare a questo settore una crescente attenzione in futuro.
Gli Stati Uniti procedono con determinazione con il programma di ritorno sulla Luna (Artemis), a cui l’Italia ha già chiarito di voler aderire. L’alleato chiede anche su questo una scelta di campo e Palazzo Chigi lavora su una strategia di collaborazione di lungo periodo. Qual è l’ambizione italiana?
Gli Stati Uniti sono il nostro principale alleato e da sempre un nostro partner privilegiato nel campo dell’esplorazione spaziale. Washington apprezza particolarmente le attività italiane in questo settore, nonché l’indiscussa eccellenza dell’industria del nostro Paese. Siamo infatti stati tra i primissimi partner cui gli Stati Uniti si sono rivolti per lo sviluppo del programma Artemis. Il nostro obiettivo è di contribuire in maniera significativa, sia sul piano bilaterale che tramite il comune sforzo europeo in ambito Esa, a questo nuovo capitolo dell’esplorazione spaziale, caratterizzato da un marcato coinvolgimento del settore privato, che potrebbe avere importantissimi ritorni per le nostre industrie di settore.
Passiamo alla Cina. In conferenza stampa con il suo omologo Wang Yi, ha ricordato la differenza fra partner commerciali e alleati. Un dossier che chiama in causa entrambi è lo sviluppo delle nuove tecnologie e della rete 5G. Gli Stati Uniti stanno promuovendo un network internazionale di Paesi alleati che utilizzano tecnologie “clean”, escludendo quelle cinesi. Pensa che sia ipotizzabile un’adesione italiana?
Così come anche altri partner europei, l’Italia rimane aperta a tutti gli investimenti stranieri funzionali alla crescita e all’occupazione, purché essi siano in linea con le esigenze dettate dalla sicurezza nazionale e con la collocazione euro-atlantica del nostro Paese.
Ben consapevole delle implicazioni securitarie delle nuove tecnologie di telecomunicazione – e della rete 5G in particolare – l’Italia prende seriamente le preoccupazioni Usa e mantiene uno stretto coordinamento con l’Unione Europea, che ha adottato all’inizio di quest’anno un dettagliato insieme di misure (“Toolbox”) volte a mitigare i principali rischi di sicurezza cibernetica. In base a tali regole il Comitato Golden Power, istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, vigila sull’adozione di tecnologia 5G da parte dei diversi gestori di telecomunicazioni nazionali. Il fine ultimo è quello di aumentare il livello complessivo di sicurezza per gli utenti, la tutela della riservatezza delle informazioni e la sicurezza complessiva del Paese.
Recentemente il presidente francese Emmanuel Macron ha detto che la Nato è “in morte cerebrale”. Lei cosa ne pensa? Crede che l’Italia, Paese che non ha mai messo in dubbio la sua adesione all’Alleanza, possa investirvi più risorse?
La convinta adesione alla Nato – di cui l’Italia è Paese fondatore – è uno dei pilastri della politica estera italiana. Siamo tra gli Alleati che contribuiscono maggiormente alle attività e al bilancio della Nato, e i nostri uomini e donne in uniforme riscuotono vasto apprezzamento in tutti i teatri nei quali sono impegnati. Partecipiamo in maniera propositiva anche al processo di costante adattamento dell’Alleanza alle sfide alla sicurezza collettiva più dirette ed attuali. La creazione dell’Hub per il Sud presso il Comando Nato di Napoli è un segno tangibile in tal senso.
Chiudiamo con alcune considerazioni sul suo mandato alla Farnesina. Lei si è molto impegnato per rendere più chiara e trasparente la connotazione economica della missione diplomatica. Come giudica questo connubio e la possibilità di usare strumenti come Ice, Simest e Sace?
Ho sempre concepito la diplomazia economica come una componente fondamentale della politica estera. È questa consapevolezza che mi ha spinto a sostenere il trasferimento alla Farnesina delle competenze in materia di commercio e internazionalizzazione delle imprese. Questa riforma ha consentito di unificare la visione d’insieme dei mercati stranieri grazie alla più stretta integrazione tra il Maeci e gli altri enti di sostegno pubblico all’export quali Ice-Agenzia, Sace e Simest. I nostri operatori possono ora contare su una rete di più di 390 uffici in tutto il mondo tra sedi diplomatico-consolari, Uffici Ice Agenzia e Uffici Sace all’estero. Inoltre, con il lancio del “Patto per l’Export” abbiamo stanziato la cifra senza precedenti di 1,4 miliardi di Euro per programmi a sostegno dell’internazionalizzazione del “Sistema Paese”.
Se dovesse consigliare alle imprese italiane a quali mercati guardare, quali suggerirebbe?
Quanto ai mercati a cui guardare, penso che l’analisi non possa prescindere dall’impatto della pandemia. Da un lato, assistiamo a processi di “reshoring” delle catene di valore, che potrebbero aprire nuove prospettive in alcuni mercati vicini, in primis la Germania. Dall’altro lato, converrebbe puntare su mercati nei quali la pandemia appare avviarsi verso una fase regressiva. Al di là di queste considerazioni, credo che gli accordi di libero scambio siglati tra l’UE e Paesi terzi possano comunque dischiudere rilevanti opportunità per le nostre imprese: penso, in particolare, a Giappone e Vietnam. E poi ci sono i paesi dell’Unione Europea, verso i quali si dirige ancora oggi oltre il 50% dell’export italiano.
Diplomazia economica significa anche attrazione dei capitali. Il fondo americano Kkr si appresta a chiudere un accordo con Tim dopo qualche tentennamento dal mondo della politica. Si sente di rassicurare gli investitori stranieri che l’Italia è un luogo attraente e sicuro per gli investimenti?
Assolutamente sì, e gli importanti investimenti che sono arrivati nel nostro Paese negli ultimi mesi nonostante la pandemia, da quello del fondo Kkr a quelli di grandi aziende statunitensi del settore IT e digitale, sono la dimostrazione della fiducia delle società straniere nel Sistema Italia.
Come governo siamo consci dell’importanza di continuare ad attrarre in Italia capitali esteri e progetti di investimento ad alto valore aggiunto, che rappresentano una fonte di crescita economica e di occupazione fondamentale per la ripresa che dovrà seguire questa fase emergenziale.
A tal fine, è importante il lavoro che viene svolto sia all’estero, dalla rete diplomatico-consolare, che sul territorio nazionale, da parte di Invitalia, delle Regioni e degli enti locali, e, a livello centrale, dal Comitato Interministeriale per l’Attrazione Investimenti Esteri (Caie).