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Dal Sahel al Libano, ecco il risiko del Mediterraneo. Parla l’Amb. Minuto Rizzo

Di Roberto Pagano
libano

Finora l’Europa è stata troppo “statica” nell’affrontare le crisi sul proprio vicinato. Per questo, occorre rilanciare in fretta il dialogo con i Paesi del Medio Oriente e nord Africa (Mena), Turchia compresa, “too big to fail”. Parola dell’ambasciatore Alessandro Minuto Rizzo, già vice segretario generale dell’Alleanza Atlantica e presidente della Nato Defense College Foundation. Lo abbiamo raggiunto per capire meglio quanto sta accadendo nell’area mediorientale e nordafricana, anche a bilancio di un recente focus-conferenza ad hoc, “Arab Geopolitics 2020” (qui il racconto di Formiche.net).

Ambasciatore, qual’è la sua valutazione del ruolo dell’Europa e della Nato nella regione Mena e quale possibile chiave stabilizzatrice, in specie, nell’area araba?

Lei sa bene che quando ero alla Nato mi occupavo proprio dei Paesi arabi, e anzi avevo una delega ad hoc. Ed ho anche una certa passione personale su questo tema, ho scritto un libro e diversi articoli in inglese su questo, e per me, quindi, la regione Mena non è solamente un fatto di tipo culturale e di interesse professionale. Dopo i tanti anni in cui se ne è molto parlato e variamente, la mia riflessione è questa: io credo che, intanto, bisognerebbe essere più amichevoli verso i Paesi arabi. Amichevoli nel senso di non cercare di avere soltanto un vantaggio nella cooperazione, ma sottolineo, fare un’operazione continua del parlare e parlarsi.

Perché?

Perché è sempre bene parlarsi e non cercare di strappare contemporaneamente contratti e accordi economici. Certamente, sono importanti anche gli accordi, ma bisognerebbe assumere un atteggiamento più generoso, direi, da parte dell’Europa, e che attualmente non vedo. E possiamo pensare, tra l’altro, alla questione dei migranti, tema molto serio al giorno d’oggi. Inoltre, e parlo con lei in maniera tecnica, bisogna fare più progressi, ma anche mettendo in campo piccoli progetti di cooperazione. Sarebbero necessari progetti che partono dal basso e che vanno verso l’alto. Bisogna unire. Cioè unire le persone, unire le piccole aziende, unire anche gli enti, e i giornali ed i media. Questo in modo che si facciano più cose e molte più attività insieme.

Quanto sarebbe utile, in particolare, questa cooperazione euro-araba più stretta ed organica?

Sarebbe molto importante perché gli arabi hanno questa grande, enorme frustrazione, in parte vera, di essere considerati persone e Paesi di seconda classe. Per cui loro considerano che gli europei, gli americani vengono e poi tra espressioni di grande amicizia, la conclusione di un qualche accordo, e qualche fotografia di rito o turistica alle antiche vestigia, poi, in verità, rilevano che non interessa loro un gran che della realtà locale. Quindi bisogna costruire dei rapporti veri, quotidiani, molto maggiori e intensi.

L’Italia ha, da sempre, una politica di amicizia verso il mondo arabo, riconosciuta come equilibrata da tutti gli attori locali, e portata avanti da maggioranza o opposizione, e non solo nel culmine delle politiche morotea o andreottiana o del tempo craxiano. Ma non appare molto appannata e limitata negli ultimi anni, e così non solo il nostro approccio, ma anche quello europeo?

Sì, certamente, perché l’Italia ha rapporti ottimi con tutti nella regione. Ha, tra l’altro, questa tradizione di amicizia e cooperazione di lunghissima data con tutti questi Paesi Mena. E i nostri partner lo sanno molto bene, Nato e Stati Uniti compresi. Queste nostre relazioni sono importanti. Ma questa è una questione antica e ben nota e che è un punto a nostro favore. Io credo che oggi quel che bisognerebbe fare è occuparsene politicamente e in maniera un po’ più attiva, e non in funzione della politica interna del singolo Paese. E parlo riferendomi a tutti i partner dell’Alleanza e della Ue. Non è bene andare in quei Paesi e in quella regione in funzione delle posizioni dei singoli partiti e delle questioni domestiche. In Italia, o che sia il PD o il M5S oppure la Lega con i rispettivi approcci; in Francia, egualmente in funzione della politica del presidente Macron oppure della Le Pen o di un altro indirizzo politico. È così un po’ ovunque nel vecchio Continente. Purtroppo, la decadenza europea si misura anche in questa quasi “introspezione”, direi io: ci vediamo l’ombelico, tutti guardiamo noi stessi, per ché tanto l’importante dappertutto è vincere le prossime elezioni. Questo però è un segno di plateale decadenza e non ci porta lontano.

Dopo le cosiddette rivoluzioni arabe, dopo la presa del potere di diversi partiti islamisti nelle varie declinazioni, moderata come Ennhada in Tunisia o l’Akp di Erdogan con il suo etno-nazionalismo religioso oggi quasi autoritario in Turchia o altrove con una radicalizzazione di partiti-milizia armati, fino alla diffusione del fondamentalismo terroristico-religioso, pensa che sia stato spazzato via definitivamente dalla realtà il vecchio nazionalismo arabo delle origini, spesso quasi laico ed anche socialista? 

Non so se la ripresa del discorso dell’islamismo politico ha cancellato del tutto il nazionalismo del passato, però io penso spesso a questo aspetto e la sua è un’interessante domanda. L’islamismo politico è anch’esso una maniera di esprimere una identità. Però è di certo finito quel tempo: in primo luogo, il nazionalismo di Nasser; ci ricordiamo poi della Repubblica Araba Unita o del partito Baath in Siria e in Iraq. Anzi, io da giovane studioso prima di entrare al Ministero degli Esteri scrissi su questo, vergando qualche articolo preoccupato proprio sul partito Baath, che era appunto di ispirazione laica e moderata e, per alcuni versi, anche un po’ cristiana. Questi aspetti della politica e cultura nella regione oggi sono un po’ scomparsi e alcuni sono stati anche, per così dire, “sfortunati” perché alla fine, il partito Baath in Iraq si conclude con Saddam Hussein ed a Damasco con gli Assad. Davvero una bella sfortuna che sia andata così, direi ironicamente. Quindi oggi c’è quel che c’è. E che, francamente, non saprei come definire. In parte è islamismo, in parte sottosviluppo, in parte, semplicemente disgregazione. Potremmo dire: la perenne ricerca di uno Stato che non c’è.

Non da oggi c’è l’enigma-Turchia e il suo rapporto con gli alleati euro-atlantici. Diversi elementi rendono complessi e difficili le relazioni con almeno tra tre o quattro partner: la crescente volontà di influenza di Ankara nella regione, ben oltre i Paesi turcofoni, la controversia sull’ampliamento della zona economica marittima, l’intervento in Libia; non ultimo, le relazioni instaurate con la Federazione Russa anche dal punto di vista degli armamenti con i missili S-400 acquistati dal Cremlino, tra l’altro incompatibili con il sistema di difesa Nato. È una questione inevasa?

Sì, è rimasta inevasa. Per la Turchia si può dire “too big to fail”: è un Paese troppo grande. Che cosa bisogna fare? Punire o trattare male Ankara e poi tutto bene? Cacciare i turchi dall’Alleanza? Forse faremmo ancora peggio. Certamente, le ambiguità ci sono e non bisogna assolutamente nasconderle. Non voglio dire che va tutto bene, per nulla. Però con azioni simili o se noi li espellessimo, probabilmente avremmo da parte turca un rigurgito nazionalista supplementare. In questa maniera noi cerchiamo di dialogare. In fondo, si pensa che Erdogan cambierà, oppure che se ne andrà, e la situazione un giorno si modificherà e succederà qualche cosa, e che in fondo la Turchia rimane un paese abbastanza laico, per molti versi. Insomma, chi può dire cosa è meglio fare? Per questo preferiamo tenerlo “dentro” che fuori. Ma questo rientra nel discorso alquanto scomodo che facevamo prima della decadenza europea. Con un’Europa sostanzialmente statica, a parte la diplomazia pura, in effetti la Turchia fa quello che dovremmo fare noi, una sorta di “lavoro sporco” per conto nostro. Ad esempio, se vanno a Tripoli in fondo forse è meglio che vadano i turchi, rispetto ai mercenari russi, lo dico forse esagerando, ma molto francamente e educatamente, perché altrimenti c’è tra noi un non detto e non ci capiremmo mai. È chiaro che la Turchia è un problema, però se non ci sono più gli europei e se non ci sono più gli americani, Ankara, in realtà fa qualcosa che dovremmo fare noi.

La spaventosa esplosione a Beirut, questa enorme distruzione, mette in discussione anche la già precaria situazione libanese.

Quel che posso dire è che, purtroppo, piove sul bagnato. Il Libano non aveva affatto bisogno di questa catastrofe di dimensioni bibliche, una tragedia enorme che va a colpire un paese che è profondamente debole e nettamente diviso all’interno. Temo, purtroppo, che anche questo non sia uno shock sufficiente per radunare le forze migliori, magari con l’aiuto della comunità internazionale, per cercare di mettere un minimo di ordine. Ma mi auguro davvero che, invece, si trovi una qualche intesa nazionale e speriamo che sia così.  La Francia subito ha cercato di esprimersi come il Paese protettore storico di Beirut, e questo significa naturalmente anche la voglia dei francesi di giocare un proprio ruolo. Il Libano era un mandato francese fino alla Seconda guerra mondiale e, dunque, non è un caso questo attivismo. Quindi, di per sé, l’iniziativa di Parigi non sarebbe del tutto velleitaria. Però un conto è chiedere a dei donatori di dare dei soldi, che è importante e per cui del denaro arriverà certamente a Beirut, ma altra cosa è rimettere in piedi il Paese. E qui non saprei, sono dubbioso perché tutto quello che è successo negli ultimi anni venti anni mi induce più al pessimismo che all’ottimismo. E veramente mi dispiace dirlo, perché è un Paese, il Libano, e lo ricordo quando ero un giovane diplomatico in altre parti del mondo, che era considerato come la Svizzera del Medio Oriente. Gli ambasciatori libanesi sono ed erano sempre persone molto istruite, cordiali, persone di mondo e della buona società. Inoltre, vi sono comunità libanesi consistenti e di tutto rispetto, molto rilevanti, in Argentina o negli Stati Uniti. Io stesso ho vissuto a Parigi e ho avuto molti incontri con gli amici libanesi che vivevano in Francia, diplomatici e no, in genere cristiani di buona famiglia.

Vi è, inoltre, una permanente crisi socio-politica e grandi fratture politico-confessionali, con in più le diverse e contrapposte influenze esterne.

Sì, è un vero peccato, perché quel che è accaduto con la deflagrazione avrà conseguenze ulteriori, aggravando la divisione politica interna, che non si riesce a sanare. Inoltre, metà del paese è sotto influenza iraniana e, quindi, risponde non a logiche di salvezza nazionale libanese, ma a logiche politiche più ampie. La parte cristiana sembra che abbia perso molti colpi, mentre una volta era dominante. E in tal modo, ci troviamo in uno stato di grande incertezza. La vicina Siria certamente non aiuta, a sua volta, verso una stabilizzazione pur precaria. Damasco oggi è in grande difficoltà dibattendosi tra guerra e povertà, mentre in passato i siriani facevano anch’essi i protettori e padroni del Libano, ma se non altro mantenevano la pace interna. Mi spiace dare giudizi cosi negativi e pessimistici e mi augurerei un futuro molto diverso e migliore per il Libano, ma con le carte che abbiamo in mano si registra questo, in realtà.

Da più parti si è accusato non velatamente Hezbollah di avere dei depositi di armi nel porto beirutino e, quindi, essere indirettamente responsabile anche dell’esplosione. Non crede che come partito-milizia e componente del governo, forse non aveva interesse a questa “pubblicità” negativa?

Sì, certo, la questione delle cause e delle responsabilità da attribuire per questa spaventosa deflagrazione è molto complicata, al momento. Ma altrettanto complesse sono le dinamiche politiche e gli equilibri del paese dei Cedri. A parte la presenza del grande deposito chimico, ne sapremo di più, si spera, dagli sviluppi delle inchieste in corso.

Ambasciatore, cosa pensa di quello che sta accadendo sempre in questo scacchiere, in Mali, con il traumatico cambio al vertice, che pare confusamente prefigurare una transizione in senso più democratico? Una destabilizzazione che interessa ancora una ex colonia francese. Inoltre, a parte il supporto in Niger, vi è una non definita presenza militare italiana nel quadro della missione Takuba.

Noi qui ci stiamo occupando effettivamente di due casi drammatici. Il Libano e l’area del Sahel, che, al di là delle vicende maliane, subisce l’influenza del terrorismo islamico, con le componenti più o meno dissidenti di Al Qaeda che controllano gran parte del territorio. Qui abbiamo una scarsa presenza governativa, con governi poveri e deboli che non riescono a controllare la situazione.
Sì, in effetti, si è deciso di inviare delle forze militari in Mali, ma per il momento non c’è una vera missione italiana ed una reale autorizzazione. In futuro vedremo. Quel che sembra, dando un giudizio alquanto critico, è che anche quest’area è stata ed è una zona di influenza francese, ma molto diversamente dal Libano, questa influenza si è estesa qui fino a ieri. Le classi dirigenti di questo Paese, e non solo le classi dirigenti, si sono formate in Francia. Ed i francesi considerano questa parte dell’Africa quasi una sorta di casa loro, un proprio territorio.

È un fatto positivo?

Può essere un fatto positivo dal punto di vista culturale, ma d’altra parte c’è anche una pretesa dell’Eliseo, in una qualche maniera, di voler continuare ad esercitare un ruolo egemonico, anche dal punto di vista militare, senza peraltro avere la capacità e la forza di riuscire a stabilizzare realmente la situazione dell’area. Poi, in base a quel che registro da amici che hanno rapporti intensi nella zona o sono là, mi si dice che in tutto il Sahel vi sono governi che non controllano veramente tutto il territorio e che c’è anzi una certa protesta, anche latente, delle popolazioni locali verso gli esecutivi. Ed anche da questo deriva probabilmente il colpo di stato in Mali. Insomma, da una parte i francesi chiedono l’aiuto internazionale ed anche quello americano per la logistica, i satelliti ed altro, mentre dall’altra vogliono continuare a guidare le missioni. Questo, a mio giudizio, non è un punto di partenza positivo. Sarebbe molto meglio se vi fossero delle missioni veramente multinazionali, sotto comando anche di altri Paesi o con altre formule, ad esempio con una rotazione del comando. E questo perché non sembra, lo sottolineo, che Parigi abbia la capacità materiale, militare e fors’anche anche finanziaria, di giocare un ruolo a lungo termine in un’area così complicata.

Il golpe, attuato in primis dai giovani militari Goïta e Diaw a Bamako, è solo un fatto interno?

Chi sta dietro il colpo di stato militare in Mali da qui è difficile dirlo, anche perché bisognerebbe saperne molto di più. Da quanto si percepisce, il golpe rientra nel consueto, scarso appoggio da larga parte della popolazione locale ai governi, che spesso appaiono come eterodiretti, quasi guidati dagli stranieri. E quindi si avverte la necessità di cambiare e di avere dei dirigenti più in sintonia e vicini alla società civile. Le motivazioni potrebbero essere queste.

L’area è sempre particolarmente agitata, nonostante la presenza-influenza dell’ex potenza coloniale.

Si, nel mondo africano i colpi di Stato militare non sono infrequenti. Molte volte si tratta di avvicendamenti tra una persona e l’altra e tra diversi gruppi di persone e non implicano un vero giudizio politico. Nel caso del Mali si può auspicare che un governo diverso abbia un atteggiamento differente rispetto alla dissidenza interna e agli oppositori, e magari anche del mondo esterno.
Tra l’altro, ricordo che l’anno scorso l’Italia voleva partecipare con una missione militare nel Niger, che poi non si è del tutto definita.
Quindi, il colpo di stato a Bamako si può ben inserire in questa situazione locale abbastanza complessa e non può certamente peggiorarla. Potrebbe forse invece, migliorarla con l’arrivo di un governo desideroso di allargare la sua influenza sul paese.

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