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Trump vs Biden. Il confronto delle due convention spiegato da Martino

Di Lucio Martino

Un’evidente debolezza di contenuti e una generale passività che non ha risparmiato neanche l’organizzazione dell’evento, sono i caratteri principali di una convenzione democratica che ha quasi nascosto quanto fatto dall’ex vicepresidente Joe Biden nei suoi cinquant’anni di vita politica, per evidenziare la sua famiglia e le sue tragedie. Tale passività è una conseguenza inevitabile della logica alla base della candidatura di Biden. L’ex vicepresidente non entusiasma davvero nessuno, ma questo non importa, perché in questa sua ennesima campagna elettorale, Biden deve solo affermarsi come una persona per bene, per poi accettare la carica di presidente degli Stati Uniti non appena il nuovo coronavirus e i media avranno sconfitto il presidente Donald Trump. Ovviamente, affinché questa strategia funzioni, e funzioni fino in fondo, Trump dovrebbe, suo malgrado, stare al gioco e lasciarsi trascinare dall’inerzia, cosa che in questi giorni ha dimostrato di non avere davvero intenzione di fare.

La convention repubblicana ha scritto una ben diversa sceneggiatura, meno virtuale e quindi anche solo per questo meno passiva, e comunque incentrata non solo sulla violenza che imperversa nelle città governate dai Democratici e sul rifiuto dell’epidemia come fattore paralizzante la vita del Paese, ma anche e soprattutto basata sull’ostentata rivendicazione degli obiettivi in materia di scambi commerciali, occupazione, immigrazione e difesa raggiunti dal presidente in carica negli ultimi tre anni e mezzo. Trump e i Repubblicani hanno così ridefinito l’intera competizione elettorale, costringendo Biden e democratici a giocare di rimessa. Difficile dire quanto questo incide sul risultato finale, di sicuro c’è solo il fatto che le elezioni presidenziali 2020 erano, e restano, aperte a qualsiasi risultato.

Palesemente diverso è poi il pubblico al quale i due partiti si sono rivolti. I Democratici, anche facendo ricorso a molti nomi del mondo dello spettacolo, hanno fatto del loro meglio per rassicurare l’elettorato moderato, al tempo stesso cercando di non perdere il contatto con quell’universo progressista che si riconosce in Sanders. Da parte loro, i Repubblicani, dando la parola a un gran numero di relatori estranei al mondo della politica di professione, quali quei coniugi McCloskey ascesi agli onori delle cronache per aver fronteggiato con le armi un gruppo di manifestanti che aveva divelto il cancello d’ingresso del loro comprensorio residenziale, hanno cercato quasi soltanto di stimolare la propria base e di raggiungere quell’elettorato suburbano femminile che ha con Trump un rapporto a dir poco controverso.

Dal confronto delle due convention è particolarmente evidente il contrasto tra un Partito Repubblicano sbilanciato verso il futuro e un Partito Democratico legato al passato. La senatrice Kamala Harris rappresenta senz’altro il presente del partito democratico, ma Biden certamente non ne rappresenta il futuro. Così come non ne rappresentano il futuro Bill e Hillary Clinton, Barack e Michelle Obama, Nancy Pelosi, Jim Clyburn, Elizabeth Warren, Bernie Sanders e Chuck Schumer, vale a dire gli altri grandi protagonisti di una convenzione democratica che ha emarginato quasi tutti i volti nuovi del proprio partito, a iniziare da quell’Alexandra Ocasio Cortez alla quale non sono stati concessi neppure due minuti. D’altra parte, quanto Trump rappresenti un vero e proprio spartiacque, è più che evidente nella completa esclusione degli uomini che negli ultimi venti anni hanno fatto la storia del Partito Repubblicano. In quest’ultima convention, Repubblicani del calibro di George e Jeb Bush, Mitt Romney, Paul Ryan, Ted Cruz, Marco Rubio e John Kasich sono stati tutti rimpiazzati da una nuova generazione (oltretutto per via della sua “diversità” molto lontana da ogni stereotipo repubblicano), all’interno della quale spiccano i nomi di Nikki Haley, Tim Scott, Kristi Noem, Daniel Cameron, Rand Paul, Kimberly Guilfoyle, Matt Gaetz e Ivanka Trump.

Accomunate quasi solo dall’esagerata importanza attribuita a un Trump considerato dai Democratici come la più grande minaccia che la democrazia debba oggi fronteggiare, e dai Repubblicani come l’ultima difesa nei confronti dell’anarchia, le due convention hanno principalmente dimostrato che Trump continuerà ancora almeno per qualche tempo a controllare il Partito Repubblicano, mentre lo stesso non si può dire a proposito di Biden e di un Partito Democratico le cui evidenti fratture, politiche e generazionali, sembrano destinate in ogni caso ad accentuarsi, anche all’indomani di un’eventuale conquista della Camera, del Senato e della Casa Bianca.

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