La crisi di governo dell’agosto 2019, che si risolse rapidamente con la nascita di un nuovo e diversamente colorato esecutivo sempre a guida di Giuseppe Conte, doveva sulla carta favorire Matteo Renzi, che in casa Pd ne era stato il massimo patrocinatore. A Nicola Zingaretti, almeno in una prima fase, non sarebbe dispiaciuto tornare alle urne proprio per ridimensionare il senatore di Rignano (la cui presenza di “fedeli” in Parlamento era sovradimensionata perché risentiva dei precedenti equilibri nel Partito). Renzi però volle strafare, pensando di capitalizzare al massimo i risultati ottenuti creando subito un nuovo partito che, pur garantendo al nuovo governo l’appoggio, ne avrebbe costituito una permanente spina nel fianco. I risultati, nel suo ragionamento, sarebbero arrivati su due fronti: quello delle nomine, che stavano per essere fatte, ove si poteva far pesare il proprio ruolo essenziale per la tenuta della maggioranza; e su quello del consenso degli elettori, che, poco alla volta, avrebbero imparato ad apprezzare il neonato partito e a fargli conquistare una fetta di consenso intorno al 10 per cento. Inutile dire che, ad un anno di distanza, stando a tutti i sondaggi, questo secondo risultato non si è realizzato e il partito di Renzi, Italia Viva, si attesta a malapena attorno a un misero tre per cento.
Perché ciò sia potuto accadere, e soprattutto perché Renzi non abbia previsto questo esito fallimentare, dipende a mio avviso soprattutto da un fattore psicologico e caratteriale, che ha un peso rilevante se la politica si “personalizza” fino a far sì che alcuni partiti si identifichino con il proprio leader. Il quale, nel caso di Italia Viva, ha vissuto l’esperienza del carisma e del plauso delle folle, che rispondono quasi automaticamente ai capi, ma solo fin quando le cose vanno bene. Egli ai loro occhi risultava “credibile” e degno della loro “fiducia”. Questa aura di laica sacralità Renzi l’ha avuta, ma l’ha pure persa da un bel po’, già ai tempi del referendum di revisione costituzionale che promosse (e che era una cosa seria). Ma non se ne rese conto, e probabilmente non se ne rende conto nemmeno oggi, essendo il potere una “droga” che acceca anche chi per altri versi ne sa manovrare le leve.
Tutte o quasi le mosse di Renzi sono dettate dalla consapevolezza che quel momento magico, e quel tocco magico che egli aveva un tempo, possano all’improvviso ricrearsi. Da qui una serie di errori a catena che lo portano ad accentuare quegli elementi di incoerenza nell’azione che un politico non dovrebbe avere. Il tatticismo e l’opportunismo, che in politica sono valori, superato un certo “punto critico”, si convertono infatti nel contrario. Ragionare in maniera esclusivamente utilitaristico fa danni perché le persone, in un contesto in cui il voto di opinione conta sempre più, non capiscono da che parte stai e come ti comporterai. Né una reiterata ed efficace retorica può mascherare a lungo questa situazione. Sei garantista, e poi ti arrampichi sugli specchi per giustificare le malefatte di certi magistrati, oppure per mandare in giudizio Matteo Salvini?
E sul referendum, come puoi essere per la libertà di voto, senza dare un’indicazione politica quasi come se si trattasse di una questione morale o di coscienza? L’unico elemento costante nell’azione di Renzi è l’ostilità nei confronti di Conte, che vede a torto o a ragione come un competitor in quell’area di sinistra moderata e liberal che egli pensa di presidiare. In un attimo farebbe cadere quel governo che egli stesso ha fatto nascere, se ciò non mettesse in moto processi incontrollabili. E se il Presidente della Repubblica, quel Sergio Mattarella che a lui deve l’elezione al Colle più alto, non avesse puntellato l’esecutivo dicendo che dopo il Conte 2 ci sono solo le elezioni. La situazione di Renzi è come quella dello scorpione nella favola che si attribuisce ad Esopo, solo che in questo caso egli deve frenare l’istinto di pungere la rana che lo porta sulle spalle come pure gli verrebbe naturale.