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Il Giappone vuole entrare nel club buono dell’intelligence ma… L’opinione di Monti

La rottura degli equilibri in Estremo Oriente causata dalla politica aggressiva dell’amministrazione Trump contro la Cina e dall’espansione del raggio di azione di quest’ultima verso l’Occidente ha riportato agli onori delle cronache l’opportunità che il Giappone diventi, ufficialmente, il “sesto occhio” del Five Eyes, il network mondiale di intercettazione e spionaggio attualmente a uso esclusivo di Stati Uniti, Inghilterra, Australia, Nuova Zelanda e Canada.

GLI ANTECEDENTI

È dal 2018 che esperti occidentali di geopolitica hanno iniziato a teorizzare la necessità di espandere a Est la membership. “Il Giappone”, dice il sales pitch a sostegno della bontà dell’idea, “si avvantaggerebbe spaventosamente, potendo contribuire a determinare l’agenda per azioni comuni di intelligence. Si amplierebbero le opportunità di costruire sistemi di difesa interoperabili con quelli degli USA e degli altri componenti”. Più che un “semplice” accordo per la condivisione delle informazioni, l’idea proposta da Arthur Herman nel suo articolo sulla Nikkei Review sembra dunque quella di una vera e propria alleanza strategica e militare, anche se non formalmente dichiarata.

LE RELAZIONI DIPLOMATICHE

A distanza di circa due anni dalle prime uscite non ufficiali sul tema, il 21 luglio scorso c’è un primo passaggio istituzionale. Non è chiaro se sia stato il Regno a fare il primo passo, come riporta il periodico Sankei o se, come scrive il Guardian, la proposta di fare del Giappone il “sesto occhio” sia arrivata dal suo ministro della Difesa, Kono Taro. Fatto sta che il tema, adesso, è passato dall’ambito della pura analisi geopolitica a quello delle relazioni diplomatiche.

Questo cambio di passo è ulteriormente evidente dalle dichiarazioni dell’ex premier britannico Tony Blair. In un’intervista rilasciata il 15 agosto a Japan Forward, rispondendo alla domanda sull’opportunità di accettare il Giappone come membro del Five Eyes, dichiara: “Ci sono buone ragioni per una scelta del genere perché abbiamo un interesse comune, alla luce di questa nuova attitudine della Cina. È un’opzione che dovremmo certamente prendere in considerazione”.

LE CRITICITÀ

Non è così semplice, tuttavia, formalizzare un accordo del genere per una rilevante serie di ragioni (culturali, politiche, economiche e linguistiche), difficilmente superabili.

Le nazioni occidentali hanno certamente molto da guadagnare da un progetto del genere. Potrebbero espandere il raggio delle loro operazioni e realizzerebbero anche una sorta di “accerchiamento” della Cina e di suo contenimento rispetto al suo espansionismo verso territori contesi e al “problema Taiwan”. Non è detto, però, che il prezzo che il Giappone dovrebbe pagare per entrare a pieno titolo nel Five Eyes sia giustificato dal vantaggio che otterrebbe —essenzialmente nelle relazioni con la Cina.

È un aspetto particolarmente importante se si considera che Five Eyes è un elemento strutturale per l’assunzione di scelte strategiche in ambito politico. Questo presuppone una assoluta coerenza di obiettivi sul lungo termine che, evidentemente, è molto difficile da ottenere. Il Giappone, infatti, ha una propria agenda non necessariamente allineata con quella degli attuali componenti del Five Eyes e potrebbe avere problemi nel dover supportare decisioni non coincidenti con il proprio interesse nazionale. È vero che il “patto” prevede che ciascun membro possa dissociarsi da iniziative specifiche, ma considerate le differenze fondamentali fra il Giappone e gli altri, questa evenienza potrebbe essere più frequente dell’accettabile.

Il che porta al secondo aspetto critico: quello dello status sostanziale riservato al nuovo associato. Sulla carta, i componenti condividono la stessa visione politica e hanno gli stessi diritti e doveri (fra i quali quello di non spiarsi reciprocamente). Nei fatti e nel caso del Giappone non è così perché le differenze storiche, culturali e —da non dimenticare— la condizione di Paese avversario nella Seconda guerra mondiale, non consentono un reale rapporto paritetico almeno fra Stati Uniti e Giappone.

Le relazioni fra Tokyo e Washington negli ultimi ottant’anni sono un argomento estremamente complesso che non può certo essere liquidato sommariamente. Ai fini di questo articolo, però, basta ricordare che gli Stati Uniti hanno avuto un ruolo fondamentale nella destrutturazione delle istituzioni giapponesi (la Costituzione Meiji venne abolita dagli americani nel 1946 in applicazione della Dichiarazione di Potsdam e sostituita d’imperio con un’altra Carta ispirata ai valori liberali) e nella loro ricostruzione secondo standard culturalmente e antropologicamente diversi. Di conseguenza, continuano a esercitare un’influenza forse non evidente, ma non per questo meno condizionante. È difficile, dunque, pensare che il Giappone si possa realmente affrancare da un rapporto così sbilanciato solo nell’ambito dell’intelligence, lasciando fermi tutti gli altri (dis)equilibri.

Inoltre, una condizione essenziale per l’allargamento dell’alleanza di intelligence è l’adozione, da parte del Giappone, di “adeguate misure” per evitare che diventi l’anello debole della catena informativa, mettendo così a rischio l’intero network.

Il tema è analizzato in termini più generali da Edward Luttwak in un’intervista del febbraio dell’anno scorso rilasciata al periodico Japan Forward nella quale: “Il Giappone ha bisogno di qualcosa di simile a quanto fanno i britannici, che hanno un field service sotto il controllo del ministero degli Esteri. (…) Il Giappone non ha bisogno di un servizio di intelligence ingombrante, grande, che crei problemi. Ha bisogno di un servizio piccolo, molto silenzioso, in grado di svolgere attività semplici. (…) Non stiamo parlando di andare in giro a sparare alla gente o altro. Stiamo parlando di un servizio sul campo in grado di fornire una situational awareness. Non c’è bisogno di intromettersi nei governi stranieri, rubare i loro piani di guerra segreti o uccidere persone”.

Dunque la mancanza del field service di cui parla Luttwak e l’assenza di un servizio di controspionaggio interno rappresentano un ostacolo insormontabile per attribuire al Giappone lo status di “sesto occhio”. E il fatto che la partecipazione sia condizionata alla creazione di queste strutture lascia anche intuire che —come peraltro accennato da Herman nel suo articolo del 2018 — nei fatti il ruolo del Giappone dovrebbe estendersi anche al compimento di azioni di spionaggio “tradizionale” non solo nel proprio interesse, ma anche in quello degli altri partner. Ed è evidente che, in questo caso, il Giappone si troverebbe nella condizione di dover operare sostanzialmente in proprio vista la improbabilità che gli altri Paesi possano mettere a disposizione personale etnicamente e culturalmente “spendibile” sul suolo Cinese.

CONCLUSIONI

In sintesi: il vantaggio di breve periodo in funzione anticinese dell’inclusione del Giappone nel Five Eyes potrebbe creare, nel medio-lungo termine, difficoltà operative e problemi politici che potrebbero rimettere in discussione la scelta.

Sarà forse per questo motivo che il ministro della Difesa Taro ha chiaramente detto che l’ingresso formale nel Five Eyes non è necessario, che per il Giappone sarebbe sufficiente una partecipazione “di fatto” e che, dunque, non sarebbe necessario rispettare “certe procedure” . Questa opzione, tuttavia, non consentirebbe al Giappone di avere i privilegi derivanti da una full membership, con il rischio che nel rapporto di “dare e avere” si trovi nelle condizioni di cedere più di quanto riceverebbe.


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