In maniera abbastanza inattesa, nella tarda mattinata di ieri i tre leader del centrodestra hanno firmato un documento congiunto che la stampa, a cui fa certo difetto la fantasia, ha subito definito “patto anti-inciucio”. Certamente, il fatto di aver messo nero su bianco l’impegno “a non dare corso, in questa e nella futura legislatura, a qualsiasi accordo di governo, con partecipazione diretta o esterna, assieme ad altre forze politiche”, è molto importante da un punta di vista politico.
Ed è sicuramente una vittoria di Giorgia Meloni, che per esso si è strenuamente battuta per evitare, sia “tradimenti” come quello della Lega, che a inizio legislatura aveva abbandonato l’alleanza con cui si era presentata al voto per stipulare un “contratto di governo” con i grillini, sia le “ambiguità” del Cavaliere che ogni tanto dà l’impressione di essere disposto a solitarie “fughe in avanti” e addirittura a far da supporto a Conte e alla sinistra.
Sarebbe però un errore limitarsi a questo semplice dato: il “patto” è molto di più, sia da un punto di vista dei contenuti; sia soprattutto da quello degli scenari complessivi che apre sulla politica italiana. Dal punto di vista contenutistico, può essere assimilato, se non a un vero e proprio programma di governo, certo a una sorta di prolegomeni per la sua stesura. Dal presidenzialismo (che piace a Meloni) all’autonomia differenziata per il Veneto e altre regioni (che piace alla Lega), dalla riforma della giustizia all’impulso da dare all’economia con le “grandi opere” un impulso alla ll’economia (che sono classiche battaglie di Forza Italia), il compromesso raggiunto riesce a comporsi in un quadro tendenzialmente coerente se non proprio organico.
Da una prospettiva più generale, esso arriva pochi giorni dopo l’intesa fra Pd e Cinque Stelle per un’alleanza organica, ancora tutta da costruire e ancora con non poche incognite. Che è come dire che l’opposizione ha risposto alla mossa delle forze di governo non solo in modo rapido e tempestivo, ma anche raddoppiando. Più in generale, questi due accordi, avvenuti a ridosso del ferragosto (che ormai non è più come un tempo periodo di assoluto riposo per i politici italiani), vanno nella direzione di una semplificazione significativa del quadro politico nazionale. E lo fanno ritornando al classico bipolarismo che ha caratterizzato gli anni della cosiddetta “seconda repubblica”.
Viene perciò superato, seppure ancora molto in prospettiva, quel cleavage fra forze filo-establishment e forze “populiste” che sembrava essere maturato con le elezioni politiche del 4 marzo 2018 e poi con la formazione del governo giallo-verde. Restano, ripeto, non poche incognite, sia politiche sia di sostanza. Da una parte, la legge elettorale proporzionale che è in gestazione, e che faciliterà sicuramente la divisione rispetto alla convergenza delle forze politiche alleate, almeno in campagna elettorale; dall’altra, la risposta dell’elettorato, anche a fronte degli effetti della crisi economica incipiente.
Le istanze genericamente “populistiche” e antipolitiche verranno probabilmente assorbite dai due poli, che si presentano oggi molto più polarizzati verso gli estremi che non convergenti al centro rispetto al passato. Non è perciò condivisibile l’analisi del professor Galli che stamattina su Repubblica parla di un nuovo cleavage “fra destra arrabbiata e populista, da una parte, e una sinistra più o meno moderata o liberal”, dall’altra. Di “moderato” e “liberal” la sinistra che sorregge il governo “più a sinistra” della storia repubblicana ha in verità ben poco.
E il Pd, che è in sostanza il garante verso l’Europa dell’attuale assetto attuale, deve fronteggiare sul fronte della demagogia e della poca concretezza la vera forza scardinante della politica italiana di questi anni, che è il Movimento dei Cinque Stelle non è certo la destra salviniana..