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Intelligence, giustizia e media, occhio al cortocircuito. L’opinione del prof. Monti

Di Andrea Monti

Un articolo pubblicato da The Diplomat riporta la notizia della confessione di due scienziati cinesi che si sono dichiarati colpevoli di avere “cospirato per rubare segreti commerciali a un centro di ricerca medico” per conto, o comunque a vantaggio, del governo cinese.

La notizia, si legge, è stata l’occasione che ha consentito al Fbi di denunciare pubblicamente la politica cinese che sarebbe dietro circa il 60% di casi analoghi a danno degli Usa e la situazione sarebbe così critica, secondo organizzazioni radicali appartenenti a varie confessioni religiose, da richiedere l’inclusione del Pc nell’elenco delle transnational criminal organisation.

La tendenza a spettacolarizzare i casi di spionaggio consegnandoli al pubblico tramite le cronache giudiziarie non è certo di questi giorni. Tutti (o perlomeno, chi ha vissuto quel periodo) ricordano le notizie che circolavano da entrambi i lati della Cortina di ferro quando un defector decideva di attraversarla, qualche spia veniva scoperta o qualche “progetto di ricerca scientifica” veniva improvvisamente cancellato.

Ma questo era possibile anche per via della circolazione molto limitata dell’informazione e del fatto che la tensione fra i due blocchi era gestita da entrambi con la consapevolezza che il “Grande Gioco” aveva le sue regole.
Oggi, immemori del loro stesso passato recente, sempre di più gli Usa ricorrono al potere giudiziario per affrontare casi che, a tutti gli effetti, appartengono invece all’intelligence — e dunque alla sicurezza nazionale— e che dovrebbero essere gestiti in modo differente per evitare imbarazzi e contro-strumentalizzazioni derivanti proprio dalla pubblicità connessa alle azioni giudiziarie.

Anche prescindendo dall’ironica circostanza che gli Usa devono molto del loro sviluppo industriale al furto di tecnologia a danno del Regno Unito e di altri Paesi europei è un fatto che l’acquisizione di informazioni scientifiche, come l’impedire che un Paese — vedi il caso dell’Iran e della tecnologia atomica — ne abbia la disponibilità, è un elemento centrale della strategia di qualsiasi governo.

Non tutti sono in grado di porre in atto determinate strategie, ma l’obiettivo è ben presente nei piani di qualsiasi organismo di sicurezza, se non altro in termini difensivi. Persino l’Italia, con la maldestra creazione del “perimetro di sicurezza cibernetica” e il dilagante, quanto poco utile, golden power se ne è accorta.

Dunque, tornando al punto, se i casi di spionaggio industriale scoperti dal Fbi fossero effettivamente riconducibili al governo cinese c’è da chiedersi come mai, invece di gestirli secondo la regola aurea dell’intelligence, “oggi a te, domani a me”, l’amministrazione americana abbia deciso di rendere pubbliche queste notizie polarizzando ulteriormente, in negativo, i rapporti Usa-Cina.

Avvantaggiarsi politicamente dall’accusare qualcuno di avere fatto qualcosa significa, infatti, essere nelle condizioni di poter dimostrare di essere una vittima che ha subito inerme la violenza dell’aggressore.

Difficilmente, però, gli Usa, come le altre superpotenze globali o quelle locali, possono incarnare questo ruolo. La storia recente fornisce molti esempi di azioni aggressive dell’intelligence americana in Paesi stranieri, dalle attività di destabilizzazione in Sud America allo scandalo Iran-Contras, alla extraordinary rendition del Mullah Omar organizzata dalla Cia a Milano e conclusasi con la grazia concessa dal Presidente della Repubblica agli agenti condannati dal Tribunale di Milano.

La regola politica dell’essere “senza peccato”, inoltre, non vale nelle aule di giustizia, dove ogni illecito deve essere perseguito, a prescindere da chi lo abbia commesso. Si può legittimamente chiedere la condanna di qualcuno che ci ha fatto del male, ma non per questo siamo giustificati per il male che noi stessi abbiamo causato.

Se, dunque, gli Usa possono legittimamente lamentarsi di operazioni ostili attribuibili alla Cina, dovrebbero essere disposti a subire, di fronte alla giustizia internazionale, le conseguenze delle loro azioni aggressive nei confronti dei loro avversari.

Un caso esemplare è quello di Jerry Chun Shing Lee, un ex agente della Cia condannato in america per avere rivelato al governo cinese i nomi dei cittadini cinesi che, in Cina, fornivano informazioni agli Usa.

Da un lato, dunque, la sentenza ha giustamente condannato un cittadino americano per avere aiutato una potenza straniera. Dall’altro, ha “certificato” che gli Usa avevano costruito, nel Paese straniero in questione, una rete clandestina per raccogliere informazioni e chissà cos’altro.

Ora, nessuno può essere così ingenuo dal pensare che un Paese (qualsiasi Paese) si astenga dal ricorrere a qualsiasi mezzo per tutelare i propri interessi, con gli unici limiti del proprio “peso” internazionale e delle risorse di cui dispone.

In questo senso, dunque, Usa, Cina, Russia e, a livelli meno globali, Turchia, Inghilterra, Francia e via discorrendo, stanno certamente giocando le loro partite anche su tavoli non sottoposti al controllo pubblico e, probabilmente, secondo regole non ortodosse.

Senza minimamente voler invocare l’impunità e l’immunità per i giocatori di queste partite, è tuttavia evidente che confondere e sovrapporre strutturalmente (e dunque non in via occasionale o sulla base di una precisa strategia) il piano giudiziario a quello dell’intelligence è poco efficiente. Oltre, infatti, ad esporre un determinato Paese a contrattacchi diplomatici e informativi, questo modo di fare riduce —almeno in quei Paesi che dichiarano di rispettarlo— il peso del rule of law.



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