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Né moderata né radicale. Gervasoni spiega il bivio per Giorgia Meloni

Di Marco Gervasoni

Il piccolo gioco dei giornali d’agosto, quest’anno che diversamente dagli ultimi due s’annuncia noioso, sembra essere di decidere cosa faranno da grandi Salvini e Meloni. Dopo il voto al Senato di giovedì scorso, la stampa mainstream intona il de profundis per il Capitano, vede Giorgetti e Zaia già a guidare la Lega che, nell’autunno, entrerà nel governissimo. Ovviamente non accadrà nulla di tutto ciò, ma nel gioco si spara in alto per vedere cosa succede.

Più divisi i quotidiani su Giorgia Meloni. Da un lato, infatti, la si presenta come maggiormente “moderata” di Salvini, ragion per cui dovrebbe moderarsi ancor più. Dall’altro, all’opposto, la si invita a mantenersi nella sua illibatezza radicale, se così si può dire, e a costruire una grande destra…di opposizione.

Non ho titoli né ruoli per fornire suggerimenti alla presidente di Fratelli d’Italia e al suo gruppo dirigente, ma entrambe le soluzioni, la moderazione oppure la radicalizzazione, mi sembrano due strade senza uscita. E questo non solo perché vengono da voci interessate (giornali vicini al Pd o in ogni caso al governo) ma proprio perché concettualmente sbagliate.

Il termine “moderato”, che nella nostra storia reca gloriose origini, si pensi alla destra cavouriana, ha da molto tempo perso ogni significato.. La tradizione della destra italiana, iniziata prima del fascismo e continuata oltre (ammesso che poi si possa definire di destra il fascismo) non è di essere moderata, a parte appunto gli inizi del Regno d’Italia.

Fin da subito infatti moderatismo divenne sinonimo di trasformismo dalla migliore destra italiana sempre combattuto. Non diremo che in Italia essere di destra vuol dire essere rivoluzionari, ma conservatori e  al contempo rivoluzionari sì. E evitare la trappola trasformista: che oggi inevitabilmente mostra le fattezze del governissimo. In altre parole se la svolta moderata significasse entrare nel solito esecutivo del presidente della Repubblica, Fratelli d’Italia si suiciderebbe, peraltro per un piatto di lenticchie, si suppone.

C’è poi un altro equivoco; moderarsi, nel caso di Giorgia Meloni vorrebbe dire liberarsi del …fascismo. E qui siamo al teatro dell’assurdo, fino a chiedere a Fratelli d’Italia una “seconda Fiuggi”. Ebbene, a parte alcuni casi marginali e piuttosto folcloristici, che si possono trovare, a segno invertito, anche dalle parti del Pd e di Sinistra italiana, i militanti di Fratelli d’Italia non sono persone in camicia nera ma giovani e spesso giovanissimi entusiasti, lontani dalle esperienze storiche di cui Fratelli d’Italia è in qualche modo erede, l’Msi e Alleanza nazionale.

Guai infatti a considerare il partito di Meloni in eccessiva continuità con gli altri due, propri di fasi storiche completamente diverse. Fratelli d’Italia nasce infatti nella età che comincia con la Grande Recessione del 2008, caratterizzata dalle insorgenze populiste e sovraniste., È questo il codice genetico di Fratelli d’Italia, un nuovo conservatorismo nazionale o sovranismo a forti tinte populiste, ed è quello che ne decreta il successo. Cambiarlo, per assomigliare a cosa?

Tuttavia scivoloso è anche il radicalismo, che porterebbe Meloni a diventare leader di una grande destra, in grado di assorbire buona parte dei voti della Lega nel caso vi vincessero le nostalgie lumbard. Non a caso è quello che gli suggerisce da tempo “Repubblica”.

Una grande destra d’opposizione, destinata a restare tale, soprattutto se sciaguratamente si andasse verso il proporzionale, sarebbe la via lepenista. E tuttavia, a parte che Marine Le Pen ha oggi più chance di entrare all’Eliseo di tre anni fa, la leader francese è isolata soprattutto per via del sistema presidenzialistico, mentre la storia della Meloni e di Fratelli d’Italia è di tutt’altro tipo.

Niente rischi di isolamento lepenista, quindi. Semmai quelli di crogiolarsi in un’estetica della opposizione, mentre la proposta di Fratelli d’Italia deve necessariamente coincidere con una destra conservatrice (o sovranista) di governo. Dio ci scampi e liberi dai programmi voluminosi spesso neppure letti dai loro stessi estensori.

Bastano cinque parole d’ordine, realistiche e al contempo innovative, assieme a una visione dell’Italia. Quanto alla cultura di governo, essa è fondamentale ma la si costruisce nel momento in cui negli esecutivi si è: se ci si modera prima, gli elettori, che dalla Meloni si attendono molto di nuovo e di coraggioso, finirebbero per darsela a gambe.

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