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Perché la crisi in Tunisia è una bomba a orologeria. L’analisi di Profazio (Nato Foundation)

Di Umberto Profazio

In un contesto regionale caratterizzato da rapidi mutamenti, la crisi di governo in Tunisia sta mostrando serie crepe in quella che molto spesso è definita l’eccezione democratica al lungo inverno arabo che ha seguito i noti eventi del 2011. Le dimissioni del primo ministro Elyes Fakhfakh sono state l’ennesimo segnale di una instabilità politica che affligge da anni le giovani istituzioni democratiche del Paese.

Se da una parte la crisi sembra rientrare nelle dinamiche tipiche di un sistema semipresidenziale quale quello tunisino, la presenza di forze regionali contrapposte rappresenta un chiaro fattore di criticità che si inserisce in un contesto economico-finanziario che mostra chiari segnali di sofferenza.

L’affaire Valis è stato di certo la goccia che ha fatto traboccare il vaso, specie in considerazione dell’intransigenza del presidente Kais Saied, che sulla trasparenza negli affari pubblici ha imbastito la campagna elettorale che lo ha portato al successo delle elezioni lo scorso anno. Tuttavia, a un’analisi più approfondita, alle dimissioni di Fakhfakh hanno di certo contribuito altri fattori, tra i quali una polarizzazione ormai consolidata che vede contrapposti il partito post-islamista Ennahda e le formazioni più o meno secolari con un chiaro orientamento revanscista e dalla chiara impronta restauratrice. Il fossato tra questi due campi avversi si sta ulteriormente allargando a seguito dell’espansionismo della Turchia, considerata assieme al Qatar il principale sostegno ai movimenti islamisti nella regione.

Queste dinamiche regionali hanno indubbiamente contribuito ad alimentare l’attuale crisi di governo, specie ove si consideri che le dimissioni di Fakhfakh sono avvenute simultaneamente alla discussione in parlamento della mozione di sfiducia contro lo speaker Rached Ghannouchi, leader di Ennahda.

Tale intreccio mostra chiaramente come l’affaire Valis è stato utilizzato come casus belli per porre termine a una coalizione che aveva già mostrato tutti i suoi limiti nei mesi precedenti. A guidare la fronda contro il Primo Ministro è stata infatti Ennahda che, nonostante avesse ottenuto la maggioranza relativa alle scorse elezioni, era stata costretta a difficili trattative per formare una coalizione di governo.

Frutto della parcellizzazione del panorama politico tunisino, la scelta di Fakhfakh è stata di mal digerita. A riprova dei rapporti tesi tra il primo ministro e la formazione guidata da Ghannouchi, il licenziamento dei sei ministri di Ennahda da parte del dimissionario Fakhfakh, che ha anche accusato il partito di atteggiamento irresponsabile durante una delle fasi critiche attraversate dalla Tunisia contemporanea. Il gesto, poco più che simbolico, evidenzia più che altro il clima di profonda sfiducia tra Saied e Ghannouchi, i cui rapporti si sono visibilmente raffreddati nel corso degli ultimi mesi.

Al riguardo, è da ricordare come le dimissioni di Fakhfakh siano state annunciate dopo una visita del primo ministro al Palais de Carthage e poco prima della discussione di un voto di sfiducia presentato da Ennahda contro il Primo Ministro.

Considerata la natura costruttiva del voto di sfiducia secondo la lettera della costituzione tunisina, le dimissioni sono state chiaramente strumentali nel privare Ennahda della possibilità di nominare un primo ministro di sua scelta, riportando tale potere nell’alveo delle prerogative presidenziali. L’incarico affidato al Ministro degli Interni uscente Hisham Mechichi rientra quindi nel disegno presidenziale di neutralizzare la forte spinta di Ennahda, il cui atteggiamento è divenuto sempre più assertivo col passare dei mesi.

Considerato come indipendente da logiche partitiche, Mechichi è stato anche membro della Commission nationale d’investigation sur le faits de corruption et malversation durant la dictature, organo anticorruzione istituito durante la prima fase della transizione tunisina. Il suo profilo tecnico risulta quindi adeguato a soddisfare la crescenti istanze di maggior trasparenza emerse nell’elettorato tunisino, specie a seguito dello scoppio dell’affaire Valis.

Nonostante la crisi politica interna abbia sollevato un certo allarmismo, tali vicende mostrano in realtà la vivacità del percorso democratico tunisino. A preoccupare è semmai l’allargarsi della frattura tra Ennahda e i principali partiti di opposizione, alimentato dal rapido cambiamento degli scenari internazionali.

La mancata approvazione della mozione di sfiducia contro Ghannouchi il 30 luglio scorso è stata sì una chiara indicazione delle geometrie variabili in parlamento, sul quale si possono ipotizzare nuove maggioranze parlamentari. Ma a ben guardare, ad essere incriminata è stata la forte disinvoltura con la quale Ghannouchi ha svolto le sue funzioni, accentuando quella che è stata spesso definita come “diplomazia parallela”. I frequenti contatti di Ghannouchi con i vertici turchi, ed in particolare con il presidente Recep Tayyip Erdogan, hanno sollevato numerosi sospetti di collusione, non solo in parlamento ma anche all’interno delle altre istituzioni tunisine, con la Presidenza fortemente irritata per le frequenti invasioni di campo in un area costituzionalmente riservata al capo dello Stato.

Consapevole dell’aumento della forza gravitazionale turca nel Maghreb, alla quale hanno contribuito non solo l’intervento militare di Ankara a sostegno delle forze affiliate al Government of National Accord (Gna) in Libia, ma anche la spinta diplomatico-commerciale turca che ha investito Algeria e Tunisia tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020, il presidente Saied sta cercando di alzare le barricate.

È in tal senso che va letta la visita ufficiale del giugno scorso a Parigi, nella quale Saied ha ribadito la neutralità tunisina nel conflitto in Libia. L’affermazione della natura transitoria del Gna e della necessità di un rinnovo della sua legittimità ha rappresentato di certo un passaggio apprezzato dal suo omologo francese Emmanuel Macron, protagonista di violente accuse nei confronti della Turchia per la sua azione di disturbo in Libia, dove Parigi ha sempre sostenuto le forze del generale Khalifa Haftar. Ma evidenzia al tempo stesso la necessità di Saied di controbilanciare la diplomazia parallela di Ghannouchi, i cui propositi di neutralità attiva nel conflitto in Libia, rappresentano più che altro un pericoloso appiattimento di Ennahda verso le posizioni turche.

Stretta tra forze regionali contrapposte che amplificano un divario di natura interna già esistente, la Tunisia rischia di perdere di vista le sue priorità di natura economico-finanziarie dovute all’impatto del Covid-19 su fondamentali economici sostanzialmente deboli. In tal senso, il recente comunicato pubblicato dalla Ligue Tunisienne de Défense des Droits de l’Homme risulta particolarmente importante.

L’accusa ai diversi governi transitori di non essere stati in grado di promuovere politiche di sviluppo in grado di ridurre la disoccupazione ed eliminare le forti disparità regionali mette in luce il permanere di una situazione particolarmente critica e potenzialmente esplosiva in considerazione delle inevitabili conseguenze della pandemia sull’economia del Paese. Di fronte a una prevedibile ripresa della proteste, la crisi politica rischia di privare la Tunisia di un esecutivo in grado di navigare la difficile congiuntura e porre le basi per avviare quella transizione economica necessaria e complementare a quella politica già portata con successo a termine.

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