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Il caso Palamara e la questione giustizia. La versione del prof. Corbino

Di Alessandro Corbino

Si apre fra qualche giorno l’atteso procedimento disciplinare nei confronti del giudice Palamara. La vicenda è tra le più sconvolgenti. Non tanto per quel che ha lasciato emergere. Quanto per la sostanziale superficialità con la quale vi si guarda. Se ne fa una questione morale. Non lo è.

Molte delle cose finite sotto i riflettori sono espressione di un costume di “corruzione” che va molto oltre, purtroppo, l’ambiente (quello della magistratura) che ne è oggi specificamente toccato. Sorprendersi delle “intercettazioni” in questione è pura ipocrisia. Come lo è scandalizzarsi di quel che si è letto in ordine alla condanna di Berlusconi, nella quale, sia detto per inciso, il “pentimento” tardivo del giudice che ha fatto le “rivelazioni” non è meno scandaloso di quanto da lui denunciato. Solleva la più triste delle domande: si sarebbe pentito se il giudizio avesse riguardato un imputato qualunque? La quale – accompagnata ai “tanti” casi di “corruzione giudiziaria” emersi negli anni – se ne porta dietro una ulteriore: quanta “corruzione” è rimasta sommersa? Non discuto il tormento personale e posso anche immaginare la “singolarità” del caso vissuto dal magistrato “rivelatore”. Ma mi chiedo se – anche solo statisticamente (alla luce di quanto sta emergendo da ogni dove: anche De Magistris ha esplicitamente dichiarato che le sue “indagini” ricevevano copertura e approvazione solo quando orientate in una direzione) – sia credibile che il caso Berlusconi sia il solo accaduto, da quando la magistratura – non i magistrati – si è data il compito di “moralizzare” il Paese in nome di una “missione” che nessuno le aveva affidato.

Il problema non è dei singoli. Non è mai esistita una società di omogenea generale moralità. Tutta di buoni o tutta di cattivi. O anche solo di sempre buoni e sempre cattivi.

Persino una grande visione religiosa (ispirata alla idea dell’amore e della tolleranza) come quella cristiana ha sempre presupposto (già con le tavole dell’antico testamento) la convivenza di bene e male, la impossibilità di estirpare il peccato e la necessità di accettare che il bene sia “virtù” (qualità dunque dei meno). Il che non le ha fatto mancare “sbandamenti” (vedi crociate o inquisizione). Ma ne ha almeno impedito che essi deviassero (se non momentaneamente) il corso delle cose.

Chi afferma dunque che si possa costruire una società di “buoni” lo fa solo in nome di una visione di cose (non importa quanto stupida, quanto arrogante o quanto perversa) che corrisponde soltanto alla “propria”. Il “political correct” non è meno violento dei totalitarismi del passato. Ne è solo una forma più subdola e difficile da contrastare. Non prende le evidenze di una volta (divise, gagliardetti, adunate, campi di concentramento, gulag). Prende i mille rivoli nei quali le forme moderne della comunicazione gli consentono di “insinuarsi”.

Ciò che esige riforma non sono i magistrati, ma la magistratura. Dei primi ve ne saranno sempre di “buoni” e “cattivi”. Come sapevano già i Romani, senatores boni viri, senatus mala bestia. Non i singoli “governano” le cose, ma le “istituzioni” preposte alle diverse funzioni. E dunque coloro che guidano e condizionano l’azione collettiva delle istituzioni tra le quali quel governo si ripartisce. Se esse (ciascuna delle quali “creazione” e “struttura di servizio” di un “ordinamento”) diventano “corporazioni” (in autogoverno) il processo di “separazione” dall’insieme diviene inesorabile. E alla fine devastante. Coloro che le governano cessano di percepirsi come “dipendenti” (strumenti di un’azione più generale: della “polis” appunto – perciò “politica” – ed esposti quindi alle “indicazioni” della stessa e ai conseguenti controlli di fedele attenzione alle stesse). Si pensi, d’altra parte, a quel che è accaduto all’università.

È solo illusorio pensare che la resa dei conti (o se volete, il lavacro) in corso possa cambiare il costume che si vorrebbe contrastare. La questione giustizia in Italia esige ben altro tipo di risposta.

Esige innanzitutto prendere coscienza del fatto che il nostro sistema giudiziario è erede lontano (sopravvissuto nonostante il venir meno delle premesse) di un ordine di cose “imperiale”, quello maturato a Roma da Augusto in avanti. Con la fine dunque delle libertà repubblicane e con lo spostamento della titolarità della “sovranità” dalla “città” ad una “istituzione” della stessa (il principe, poi imperatore). È frutto dell’idea che il giudice “potesse” essere “istituzione” (non lo era stato fino ad allora). Una idea che – con l’impero (tre secoli dopo) – sarebbe divenuta “dovesse” e sarebbe stata generalizzata (avrebbe avuto applicazione nelle liti private e nella repressione dei crimini). Essa si sarebbe poi così radicata (nell’Occidente di tradizione romana: attraverso un percorso snodatosi per quasi un ulteriore millennio e mezzo) da essere stata recepita anche negli ordinamenti che restituirono il governo delle collettività (nel travaglio costituzionale avviato con le rivoluzioni di fine Settecento) alle logiche della “politica”. Ci si illuse, in particolare, di potere imporre indirizzo “politico” alla “istituzione” alla quale la giustizia continuava a restare affidata (la magistratura professionale) attraverso la “legge”. Uno strumento sicuramente necessario, ma del tutto insufficiente. Trascura che essa (la legge) non vive del suo “enunciato”. Ma della “mediazione” che ne fa chi la gestisce (vive della sua “interpretazione”). Se costui (nella sua impersonale organizzazione) diventa “corporazione” indipendente, non potrà che farlo in forma indipendente (da tutto, anche dalla legge).

Ma la questione esige anche una discussione molto approfondita. Senza sconti e scorciatoie. Di nessun tipo. Solo una vera (mentalmente libera e “colta”) riflessione potrà restituire il nostro ordinamento giudiziario ad una adeguata efficienza. È un problema di sistema “politico”. Lo investe nella sua essenza. Nessun sistema politico resiste ad una giustizia il cui esercizio venga percepito come arbitrario. Non lo può (alla lunga) nemmeno uno tirannico. Avviare tale riflessione sarebbe il solo modo di trasformare la trista (non è un refuso!) vicenda che si apre in una occasione di restituita libertà.

Forse troppo però per un tempo nel quale ci si comincia a dividere dietro due bandiere espressione (entrambe) di sconci ossimori, come “democrazia illiberale” e “dittatura democratica”.

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