Uno dei tanti dossier aperti sul tavolo dell’esecutivo, quello di Autostrade, sembrerebbe risolto. In verità, molte incognite e lati oscuri restano ben evidenti. Ma non è quel che conta, da un punto di vista strettamente politico. Quel che importa in quest’ottica è considerare che il governo e le forze della maggioranza escono, dalla vicenda, con le ossa rotte. Sia perché, appunto, come in tutti i compromessi “impossibili”, alla fine il risultato che si ottiene è pessimo, soprattutto per il Paese; sia perché, in questi casi, ogni ostacolo superato avvelena ancor più il clima e alimenta rancori e inimicizie.
D’altronde, la tecnica del rinvio adottata dal presidente del Consiglio può funzionare fino a un certo punto e a un certo momento, ma i dossier prima o poi, come è stato nel caso di Autostrade, reclamano, anzi impongono, una soluzione. Il fatto è che la guerra di tutti contro tutti, coperta nemmeno più da un velo di ipocrisia, è oggi evidente. E se il cemento del potere è stato anche questa volta più forte delle spinte centrifughe, non è detto che queste non possano all’improvviso emergere alla prossima occasione e far deragliare il treno (che però è tutt’altro che in corsa). Anche in considerazione del fatto che nel quadro, oltre a governo e maggioranza, vanno considerati altri soggetti: non tanto i due partiti maggiori di opposizione, che sono in panchina e non sembrano di aver voglia nemmeno di riscaldarsi, come invece fa Forza Italia; quanto, prima di tutto, l’Unione europea, soprattutto la sua leader, Angela Merkel, che non ci farà nessuno sconto e ci aiuterà solo a certe condizioni e centellinando ogni risorsa in qualsiasi modo dirottata sul nostro Paese (né vanno dimenticate le pressioni che presto potrebbero esercitare gli Stati Uniti sul 5G).
C’è poi il Capo dello Stato, che su questo governo ha messo la faccia e ha un potere solo apparentemente impolitico che può in ogni momento con efficacia esercitare. È noto che la lotta politica più evidente, e che più facilmente può degenerare, è oggi quella fra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio. Paradossalmente, quest’ultimo, non più vicepresidente del consiglio “comproprietario” del governo come era nel Conte I, ma “relegato” al ministero degli esteri, e nemmeno più capo politico del Movimento, è in verità colui che continua a dettare molte carte. E si pone al crocevia di molti sentieri del potere italiano, presenti e futuri. In primo luogo, perché la leadership di Vito Crimi non si è mai appalesata; in parte, anche perché, nonostante la facilità di gaffe, nell’arte delle alleanze e delle spregiudicate tessiture politiche egli ha oggi in Italia pochi rivali. Nella vicenda di Autostrade è riuscito persino a dare l’impressione, rispetto ad un Conte costretto a giocare sulle estreme, di essere il più ragionevole e il meno radicale della compagnia. Uno schema che probabilmente si ripeterà col Mes, ove già Conte è riuscito a passare da un no deciso a un ni che diventa quasi un sì nei suoi colloqui con Merkel.
Il Mes presenta però un’ incognita in più: dovrà passare per un voto in Parlamento che potrebbe spaccare il Movimento in modo molto più visibile di quanto non sia avvenuto questa volta che si è giocato nelle retrovie. E soprattutto potrebbe far emergere una nuova possibile maggioranza con Forza Italia, chiamata a coprire l’emorragia e forse la scissione che potrebbe verificarsi fra i Cinque Stelle. Che i vecchi rivali di Silvio Berlusconi, da Romano Prodi a Carlo De Benedetti, persino fino a Bill Emmott (quello del famigerato titolo dell’Economist contro di lui) siano ora possibilisti, è a dir poco significativo. A Conte non rimane che l’arma del suo “partito personale”, che ogni giorno viene accreditato un po’ più su nelle previsioni e nei sondaggi, ma che, come tutte le armi in mano al premier, è difensiva più che offensiva.
In verità, è proprio questo giocare in difesa uno dei problemi più evidenti del governo Conte. Chi però sta messo peggio del presidente del Consiglio è il Pd, che non riesce a far passare una, dico una, delle sue politiche. E che, lungi dall’“istituzionalizzare” il Movimento, come qualche benpensante aveva pensato che potesse avvenire all’inizio di questa avventura, si è lasciato semplicemente impaludare. L’unica soddisfazione per Nicola Zingaretti è che non solo si è liberato del suo massimo competitor all’interno del partito, cioè Matteo Renzi, ma, per una via non programmata, lo ha ridotto all’irrilevanza: Italia Viva rischia addirittura di non superare la soglia di sbarramento con un’eventuale legge elettorale proporzionale.
E questa dell’imprevedibilità della politica è l’unica nota di speranza se ragioniamo in un’altra ottica: non quella meramente politica, qui assunta, ma l’altra e più sostanziale dei destini dell’Italia. La quale è tanto malata da rischiare di entrare presto in agonia.