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Capitalismo e globalizzazione. Nessuno pensa all’Africa e all’Asia?

Di Rainer Zietelmann

Ricordo ancora come negli anni Settanta e Ottanta, ogni volta che si presentasse l’occasione di intavolare un dibattito con degli anticapitalisti, qualunque discussione tendesse ad orbitare intorno alle sorti dei popoli di quello a cui all’epoca ci si riferiva come “Terzo Mondo”, cioè di Asia, Africa e America Latina. Oggigiorno, invece, lo stesso tipo di dibattiti si concentra sempre sui paesi industrializzati dell’Europa o degli Stati Uniti. Va da sé che la situazione dei paesi poveri continua a fare capolino di tanto in tanto in simili discussioni, ma è da molto tempo che tale argomento ha ceduto il proprio posto d’onore tra le principali preoccupazioni degli anticapitalisti moderni, che è stato invece occupato da: 1) lamentele sull’aumento delle diseguaglianze e 2) la lotta al cambiamento climatico.

LE DISEGUAGLIANZE SONO DAVVERO AUMENTATE? 

Quando gli anticapitalisti lamentano l’aumento delle diseguaglianze, essi prendono sempre di mira quelle che esistono nel mondo capitalista, cioè Europa e Stati Uniti. Snocciolano tutta una serie di dati nel tentativo di dare prova del fatto che il “divario esistente tra i ricchi e i poveri” nei paesi capitalisti si è allargato, e cioè che i ricchi lo stanno diventando sempre di più, lasciando sempre più indietro il ceto medio e i meno abbienti. Il fatto che ciò sia vero o meno è un argomento che andrebbe affrontato a parte: anche se è vero che i salari siano rimasti in una situazione di stagnazione per un periodo di tempo prolungato in paesi come gli Stati Uniti o la Germania, è tuttavia chiaro che questi abbiano ricominciato a salire negli ultimi anni – almeno fino allo scoppio della pandemia da coronavirus. Tuttavia, il punto focale della questione non è questo.

È molto più importante guardare all’evoluzione delle disuguaglianze su scala globale, anziché concentrarsi unicamente sui loro sviluppi nei soli Stati Uniti o in Europa. È innegabile che le disuguaglianze nel mondo siano diminuite: in paesi che una volta erano considerati come estremamente poveri – specialmente Cina e India – più di un miliardo di persone sono state liberate dalle grinfie della povertà estrema.

9788864404141Si tratta di un fatto che nemmeno i più strenui critici del capitalismo possono negare.
Nel discutere questo specifico punto, un portavoce dell’Oxfam ha una volta indicato i dati sul declino delle disuguaglianze nel mondo come prova degli ottimi risultati degli aiuti allo sviluppo. Pertanto, secondo Oxfam, i paesi occidentali dovrebbero incrementare le quote che dedicano a tali programmi.

Tuttavia, la teoria di Oxfam non riesce proprio a stare in piedi. C’è un continente che ha ricevuto la più larga fetta in assoluto degli aiuti stanziati: l’Africa. Eppure, la fame e la povertà in Africa non sono diminuite dovunque in maniera così omogenea come è invece successo in Asia, che per contro ha ricevuto una parte molto minore di tali aiuti. Se cerchiamo il vero motivo della riduzione delle disuguaglianze a livello globale non dobbiamo quindi guardare agli aiuti allo sviluppo, ma alla diffusione del capitalismo nel mondo. La globalizzazione, lungi dall’essere una condanna, è invece una fortuna, e ciò è abbondantemente provato dai dati sulla riduzione sia della povertà che della fame nel mondo negli ultimi decenni. Se si dà credito all’ottica autoreferenziale di economisti di sinistra come Thomas Piketty, gli ultimi 35 anni sono da considerare come un periodo nero, che ha visto un aumento spropositato delle disuguaglianze, ma la prospettiva si ribalta se si considera la situazione dal punto di vista degli abitanti dei paesi poveri, che negli ultimi 35 anni hanno invece visto i propri livelli di povertà diminuire più che in ogni altro momento nella storia del genere umano.

L’ALTRA FACCIA DELLA GLOBALIZZAZIONE 

Non c’è dubbio che la globalizzazione, per via del progresso tecnologico, stia portando i lavoratori dei paesi industrializzati occidentali a dover competere con quelli dei paesi in via di sviluppo come mai prima d’ora. La categoria maggiormente colpita risulta essere quella dei lavoratori meno specializzati e meno istruiti dei paesi industrializzati, e bisogna ammettere che per loro la globalizzazione si traduce in un abbassamento dei salari, in quanto si tratta di un processo che stimola la competizione tra diversi paesi. Nel peggiore dei casi possibili, lo svolgimento delle loro mansioni viene delocalizzato verso paesi in via di sviluppo, riducendo notevolmente i costi a carico del datore di lavoro. Tuttavia, i lavoratori a bassa specializzazione non sono le uniche vittime della globalizzazione, e una simile dinamica sta facendo sì che alcune categorie della classe media degli stessi paesi ne stiano venendo sempre più intaccate, il che rende la retorica no-global assai discutibile sul piano etico. Nella realtà dei fatti, la loro critica alla globalizzazione non è altro che una strategia difensiva messa in piedi dai ceti medi dei paesi ricchi, i quali temono quella riduzione dei propri salari che deriverebbe dal dover competere con i paesi in via di sviluppo.

Molti sostenitori dei movimenti anti-globalizzazione sono solitamente degli intellettuali che tendono ad essere avversi all’economia di mercato, e che pertanto vedono la globalizzazione come un’altra deprecabile forma del capitalismo stesso. Dal punto di vista di un lavoratore americano che osserva l’aumento delle diseguaglianze tra poveri e ricchi, lo sdegno è una reazione giustificata: ma cosa succede se approcciamo la questione con una prospettiva globale? Per ogni cittadino della classe media statunitense che rimane vittima della mobilità verso il basso a causa della globalizzazione e della trasformazione dell’economia mondiale, tre o quattro persone sfuggono alla povertà per andare a collocarsi tra le fila dell’emergente classe media in Cina o in India.

IL CAMBIAMENTO CLIMATICO 

In aggiunta alla loro classica attenzione al tema delle diseguaglianze e del “gap tra ricchi e poveri”, gli anticapitalisti hanno di recente incluso anche la lotta al cambiamento climatico tra i loro principali argomenti, in quanto il capitalismo sarebbe la causa ultima della distruzione dell’ambiente e del climate change. Sostengono che “noi tutti” dobbiamo porre un freno alla nostra tendenza al consumismo, e che sempre “noi tutti” dovremmo possibilmente astenerci del tutto dallo spostarci in aereo o in auto, e che dovremmo in generale produrre di meno. Il progresso economico è considerato come la fonte di ogni male, quindi l’economia non dovrebbe più crescere in virtù della finitezza delle risorse. Anche qui, la loro impronta americana o eurocentrica emerge prepotentemente. La gente in Cina, India o Africa trova ben poco senso nelle argomentazioni dell’anticapitalismo occidentale sul bisogno di “fermare la crescita”, dato che per i popoli dei paesi in via di sviluppo la crescita economica rappresenta l’unica via per sfuggire alla povertà. La Germania, ad esempio, sta gradualmente riducendo l’uso dell’energia nucleare e il numero delle proprie centrali a carbone, e vorrebbe inoltre abbandonare totalmente i motori a scoppio nel prossimo futuro: ma possiamo davvero pensare in maniera realistica che ciò rappresenti una via percorribile anche per l’Africa o per la Cina? È semplicemente assurdo ritenere che questi paesi siano in questo momento disposti o anche in condizione di seguire l’esempio tedesco.

Le alternative proposte dalla critica anticapitalista di sinistra hanno solitamente un comune denominatore: più Stato e meno mercato. Essi ignorano, tuttavia, il fatto che qualsiasi sistema che nel corso del ventesimo secolo sia mai stato basato sulla pianificazione statale è non solo fallito, ma ha anche portato a disastri ambientali di gran lunga ben peggiori di quelli che si sono verificati nei paesi capitalisti.

Soprattutto gli anticapitalisti di sinistra, che hanno a lungo adottato la prospettiva globale nell’ergersi a difensori dei poveri e dei paesi del “Terzo Mondo”, oggi prendono invece le parti dei ricchi del “Primo Mondo”, come se fossero diventati totalmente indifferenti alle sorti degli abitanti dei paesi in via di sviluppo.

L’articolo si basa sui contenuti del libro “La forza del capitalismo. Un viaggio nella storia recente di cinque continenti”, di Rainer Zitelmann, pubblicato da IBL Libri, la casa editrice dell’Istituto Bruno Leoni.

Traduzione dall’inglese di Veronica Cancelliere.


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