Negli ultimi giorni si è tornato a parlare diffusamente, anche nei media occidentali che si occupano di Iran, della partnership strategica tra Teheran e Pechino. Questa volta, la pietra è stata scagliata a fine giugno da Mahmoud Ahmadinejad, l’ex Presidente della Repubblica Islamica, il quale, durante una visita nella provincia di Gilan, ha dichiarato che gli iraniani avrebbero rigettato l’accordo di 25 anni con la Cina recentemente approvato in gran segreto dal governo Rouhani.
Le pungenti parole dell’ex Presidente hanno infiammato il dibattito politico domestico, con il Ministro degli Esteri, Javad Zarif, chiamato a testimoniare di fronte al Majles. Contemporaneamente, una serie di leak e dichiarazioni anonime, vere o presunte, hanno spinto alcuni media anglofoni a scrivere che la versione finale dell’accordo prevedrebbe la cessione di alcune isole nel Golfo Persico alla Cina e, soprattutto, la presenza di 5 mila militari della Repubblica Popolare in Iran. Questi aspetti dell’intesa, invero smentiti pubblicamente dalle autorità iraniane, appaiono comunque poco credibili.
La volontà di elevare le relazioni tra Cina e Iran al livello di comprehensive strategic partnership (Csp) risale alla visita del cinese Xi Jinping a Teheran nel gennaio del 2016. In quell’occasione Xi e Hassan Rouhani presentarono una dichiarazione congiunta che delineava piuttosto chiaramente gli obbiettivi di cooperazione di lungo termine tra i due Paesi. Le promesse di sviluppo bilaterale, spinte dal progetto della Belt and Road Initiative e dal progressivo reinserimento dell’Iran nell’economia internazionale a seguito dell’implementazione dell’accordo sul nucleare, sono però rimaste largamente disattese principalmente a causa di fattori contingenti, primo fra tutti l’effetto della maximum pressure dell’Amministrazione Trump nei confronti dell’Iran.
In questo contesto, Teheran ha cercato di consolidare il valore politico della relazione con Pechino. In questo senso, il processo di formalizzazione della partnership ha avuto come primo step la visita di Zarif in Cina ad agosto 2019, visita in cui il ministro avrebbe presentato agli omologhi cinesi una prima versione del documento di cooperazione. È importante notare che, in parziale contrasto con quanto detto da Ahmadinejad, lo scopo della visita di Zarif era stato immediatamente reso pubblico, così come le successive interazioni tra i due governi.
Quella che sembra essere la versione attuale dell’accordo venticinquennale in lingua persiana, circolata nei giorni scorsi su diversi canali Telegram iraniani e rilanciata in occidente dalla testata IranWire, delinea in modo più dettagliato le aree di cooperazione definite nel 2016. Tra queste emergono il riconoscimento della Cina come principale cliente del petrolio iraniano, la cooperazione nello sviluppo di settori strategici, tra cui quello energetico e petrolchimico, e la partecipazione dell’Iran ai progetti infrastrutturali cinesi nel contesto della Bri. Il documento menziona sia lo sviluppo della cooperazione militare tra i due paesi, che lo sviluppo congiunto di aree costiere, ma non menziona né la presenza di militari cinesi in Iran, né la cessione di territori nel Golfo Persico.
La ragione per cui il testo dell’intesa non è stato ufficialmente reso pubblico sembra essere la non ancora avvenuta approvazione dell’ultimo draft da parte del governo cinese. Allo stesso tempo, è importante ricordare che la Costituzione iraniana prevede l’approvazione parlamentare degli accordi internazionali (art.77). Di conseguenza il testo definitivo dell’accordo dovrà necessariamente essere reso pubblico al momento del passaggio parlamentare.
Come si è detto, tuttavia, i limiti emersi nella realizzazione degli obbiettivi della Csp non sembrano tanto legati all’assenza, finora, di un accordo formale, quanto più agli effetti di dinamiche regionali e globali che tendono a prevalere sulle ambizioni iraniane di consolidare la partnership con la Cina.
A livello regionale, la Cina ha da diversi anni accresciuto la propria presenza, soprattutto economica, nel Golfo Persico. Se l’Iran rappresenta un partner con un grande potenziale strategico, soprattutto nel contesto della Bri, l’esposizione finanziaria ed energetica cinese pende decisamente verso gli stati arabi del Golfo. Per questa ragione, è difficile immaginare che la Cina acceleri le relazioni con l’Iran, per esempio stazionandovi contingenti militari, mettendo a rischio quelle con Arabia Saudita e Uae.
A livello globale, invece, la Cina è ormai chiaramente coinvolta in un’accesa competizione su più livelli con gli Stati Uniti. L’Iran e il Golfo Persico hanno il proprio spazio all’interno del confronto tra le due superpotenze — e non stupisce che l’account Twitter in persiano del Dipartimento di Stato americano abbia direttamente commentato l’accordo. Come accaduto finora, è ipotizzabile che la Cina continui a gestire la partnership con l’Iran con la flessibilità necessaria a servire i propri interessi strategici di ampio respiro.
Per queste ragioni è difficile pensare che l’implementazione dell’accordo discusso in questi giorni sia un reale game changer nelle relazioni tra Iran e Cina. Ciò non significa, tuttavia, che manchino elementi di preoccupazione, soprattutto a livello domestico. La pandemia di Covid-19, che ha avuto in Iran il primo grande focolaio al di fuori dell’estremo oriente, ha esposto la pericolosa traiettoria di eccessiva dipendenza dalla Cina intrapresa dall’Iran negli ultimi anni, generando un certo scontento nell’opinione pubblica iraniana. Non è un caso, dunque, che a soffiare sul fuoco nazionalista sia stato Ahmadinejad, l’ex Presidente populista in predicato di ottenere la possibilità di ricandidarsi alle presidenziali del 2021.