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Una soluzione definitiva sulla responsabilità dei dipendenti pubblici. La proposta di Lettera 150

Di Sergio Basile, Salvatore Cimini e Giuseppe Valditara

Tanto tuonò che piovve! Con il decreto semplificazioni la responsabilità erariale è stata limitata alle sole ipotesi di dolo (anche se solo per le azioni e non per le omissioni o inerzie). Da tempo, del resto, molti commentatori evidenziano la paura di firma da parte dei funzionari pubblici che temono di incorrere in ipotesi di responsabilità erariale e nel reato di abuso d’ufficio. Timore che ha dato luogo al fenomeno della c.d. burocrazia difensiva, con rallentamenti o addirittura blocchi dell’attività dell’amministrazione pubblica e conseguente, inevitabile, lesione del principio costituzionale di buon andamento.

Ma da dove scaturisce questa paura di agire dei funzionari e dirigenti pubblici? Non certo dalla colpa grave che, com’è noto, nasce nel diritto romano e, secondo la definizione di Ulpiano, è propria di chi non intelligit quod omnes intelligunt, cioè di chi non intende quello che tutti intendono. Omnes dice Ulpiano, non aliqui o plerique. Tutti, ma proprio tutti. È chiaro dunque che la colpa grave si riferisce a casi estremi, a casi abnormi dove il non capire ciò che tutti intendono comporta una negligenza che confina con il dolo.

Infatti, secondo un noto brocardo, lata culpa dolo aequiparatur. Era il caso del depositario che custodisse una partita di candele vicino al fuoco: le candele si scioglievano e il depositario non avrebbe potuto effettuarne la restituzione. Questo innalzamento della soglia di punibilità dei dipendenti pubblici alla colpa grave, come ben evidenziato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 371/1998, risponde al tentativo di “predisporre, nei confronti dei dipendenti e degli amministratori pubblici, un assetto normativo in cui il timore della responsabilità non esponga all’eventualità di rallentamenti ed inerzie nello svolgimento dell’attività amministrativa”.

È una norma quindi tesa a migliorare l’efficienza e il buon andamento dell’amministrazione pubblica. Dunque, se la colpa grave si riferisce solo ai casi abnormi di macroscopica e imperdonabile negligenza, se è un’ipotesi nella quale nessuno incorre salvo che non sia addirittura “stordito”, perché tutta questa paura da parte dei funzionari pubblici?

La ragione risiede sostanzialmente nella mancata tipizzazione legislativa di tale nozione che ha fatto emergere con forza il problema relativo all’individuazione dei casi in cui la condotta dell’agente possa essere qualificata gravemente colposa. Così, una parte della giurisprudenza contabile, configura correttamente la colpa grave nella sprezzante trascuratezza dei propri doveri, attraverso un comportamento improntato alla massima negligenza o imprudenza, ovvero ad una particolare noncuranza degli interessi dell’ente amministrato o, ancora, a grossolana superficialità nell’applicazione delle norme di diritto ovvero in una particolare noncuranza degli interessi pubblici.

Un’altra parte della giurisprudenza della Corte ha invece “abusato” del concetto di colpa grave, contestandola anche di fronte a fattispecie oggettivamente complesse, nel caso di interpretazioni giurisprudenziali contrastanti o in casi di normativa incerta. Si è arrivati a contestare la colpa grave negli stessi casi in cui in passato si contestava la colpa lieve.

Addirittura, una giurisprudenza minoritaria ha ritenuto che la limitazione della responsabilità ai casi di colpa grave “va vista, non come una deroga al principio della colpa lieve, ma come la realizzazione di un principio di ragionevolezza consistente nel fatto che la forma di colpa alla quale ci si deve riferire è quella ‘in concreto’, cioè quella che si accerta in base ai criteri della prevedibilità ed evitabilità della serie causale produttiva del danno”, in sostanza è “poco più di una metafora” che significa “che la imputabilità per colpa dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti deve essere rigorosamente provata” (Corte conti, 23 settembre 1997, n. 66/A; Id., Sez. I, 7 agosto 2000, n. 253/A).

Si è fatto riferimento anche ad una categoria che non può trovare fondamento quando si parla di responsabilità per danno: il dolo contrattuale, tanto che con il decreto semplificazione il Governo è intervenuto sul punto specificando che “La prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell’evento dannoso”.

Questa giurisprudenza contabile ha creato sconcerto tra i funzionari pubblici, con il risultato che, per il timore di sbagliare, sono rimasti inattivi o molto prudenti nel gestire la cosa pubblica, condividendo con altri organi la decisione e la responsabilità. Si sono raggiunti così risultati opposti a quelli che l’ordinamento affida alla responsabilità erariale, provocando l’inefficienza invece che l’efficienza della Pa. E questo perché non si è tenuto adeguatamente conto della specialità dei rischi professionali degli agenti pubblici che per tale ragione meritano un giudice speciale, come la Corte dei conti.

Che fare allora? Lettera 150 ha avanzato una serie di proposte. Le analizziamo qui. Bisogna dare certezze agli operatori. Lasciare al giudice la possibilità di dare contenuto alla nozione generale di colpa grave rappresenta uno dei motivi di maggiore preoccupazione per i dipendenti pubblici, i quali non sanno quando la loro condotta sia da qualificare come gravemente colposa e, quindi, sanzionabile sotto il profilo della responsabilità amministrativa.

La soluzione però non può essere rinvenuta, così come fa il decreto semplificazione, nella abolizione della colpa grave e nell’innalzamento della soglia di responsabilità al dolo, oltretutto per un solo anno. Ciò comporterebbe notevoli problemi applicativi e di interpretazione. In verità l’abolizione della colpa grave solleva seri dubbi di legittimità costituzionale, posto che la Consulta ha già affermato che l’imputazione della responsabilità ha come limite minimo la colpa grave (Corte cost. n. 340/2001).

La soluzione proposta nel decreto semplificazione, inoltre, suscita più di una perplessità anche per il fatto che distingue l’attività commissiva da quella omissiva (per la quale ultima rimane la colpa grave): in concreto però è difficile separare i due momenti, posto che una condotta si potrebbe connotare per momenti commissivi e omissivi. Occorre trovare poi una soluzione che non sia temporanea, ma sistematica, dato che si tratta di una problematica (quella dell’efficienza della Pa e della paura dei funzionari) risalente nel tempo e non collegata all’attuale periodo di crisi.

La soluzione potrebbe essere allora quella di tipizzare la nozione di colpa grave o comunque di renderla più chiara. Così, si potrebbe fare riferimento (cosa che peraltro una parte della giurisprudenza contabile già fa) all’art. 5, co. 3, del d.lgs. n. 472 del 1995, che in materia di sanzioni amministrative per la violazione delle norme tributarie dispone in modo perspicuo che: “La colpa è grave quando l’imperizia o la negligenza del comportamento sono indiscutibili e non è possibile dubitare ragionevolmente del significato e della portata della norma violata e, di conseguenza, risulta evidente la macroscopica inosservanza di elementari obblighi tributari. Non si considera determinato da colpa grave l’inadempimento occasionale ad obblighi di versamento del tributo”.

Si pensi pure ad un’altra normativa già esistente, sia pure relativa ad una fattispecie diversa, la l. n. 117/1988 sulla responsabilità civile dei magistrati, la quale all’art. 2 (come riformato dalla legge n. 18 del 2015) dispone che: “Costituisce colpa grave la violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’Unione europea, il travisamento del fatto o delle prove, ovvero l’affermazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento o la negazione di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento…” (c. 3), aggiungendo che “ai fini della determinazione dei casi in cui sussiste la violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’Unione europea si tiene conto, in particolare, del grado di chiarezza e precisione delle norme violate nonché dell’inescusabilità e della gravità dell’inosservanza…”.

Ed ancora, si potrebbe precisare legislativamente che vale per la responsabilità erariale l’errore scusabile (a cui una parte della giurisprudenza contabile fa già riferimento), escludendo espressamente siffatta responsabilità nei casi di norme confuse, di interpretazione controversa, di contrasti giurisprudenziali, di novità della normativa, di incertezza del quadro normativo di riferimento, di complessità della situazione di fatto.

Necessario appare anche un intervento sulla prescrizione per evitare che il dipendente pubblico sia esposto al rischio di responsabilità erariale per un numero eccessivo di anni. Attualmente, l’art. 1, co. 2, della legge n. 20/1994 dispone che il diritto al risarcimento si prescrive in cinque anni a decorrere dal momento in cui si è verificato il “fatto dannoso” che, nell’ipotesi di danno indiretto, cioè quando il terzo danneggiato cita in giudizio la p.a., si concretizza quando la Pa condannata paga, perché solo da quel momento vi è un depauperamento dell’ente e quindi un danno erariale che porta all’obbligo di rivalsa dell’amministrazione sul dipendente che ha sbagliato. Com’è evidente ciò può avvenire molti anni dopo che il funzionario ha posto in essere la sua condotta, considerati i tempi lunghi dei processi, che però non possono ricadere sul dipendente. Per evitare pertanto che gli atti posti in essere dal funzionario possano essere censurati a distanza di anni o decenni, è importante far decorrere la prescrizione dal momento in cui è stato realizzato l’evento che ha causato il danno all’erario.

Queste limitazioni, si badi, non significano agevolare i funzionari incapaci o disonesti o far pagare ai cittadini i danni e gli sprechi nelle pubbliche amministrazioni, giacché il fine della responsabilità amministrativa non è quello risarcitorio ma quello di garantire il buon andamento (altrimenti non si spiegherebbe il potere riduttivo, la colpa grave, e altri caratteri di questa responsabilità).
Come limpidamente precisato da Franco Gaetano Scoca, nella “garanzia del buon andamento dell’amministrazione, e non nella difesa dell’integrità delle finanze pubbliche, sta la ‘missione’ della Corte dei conti; ed è missione di alto valore civile, non riducibile a meri obiettivi restitutori”.
E il buon andamento, il corretto, celere ed efficace esercizio delle funzioni amministrative si ottiene soltanto con una “deterrenza incentivante”, e non con una “deterrenza disincentivante”, per usare una felice espressione di Aristide Police.

Solo con una corretta applicazione della colpa grave, intesa nel suo significato ulpianeo, si può raggiungere quel punto di equilibrio, auspicato dalla Corte costituzionale, “tale da rendere la prospettiva della responsabilità una ragione di stimolo e non di disincentivo” (C. Cost. n. 371/1998).

È altresì indispensabile la riforma del reato di abuso d’ufficio. Il decreto Semplificazioni ha limitato tale fattispecie alla violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge e dalle quali non residuano margini di discrezionalità. Si dovrebbe aggiungere, a quanto previsto dal Governo, un riferimento legislativo al c.d. “doppio dolo”, riprendendo l’orientamento che la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha ormai consolidato da anni, precisando che deve essere espressamente comprovata da oggettivi fatti ed atti concludenti sia la volontà di porre in essere un comportamento che viola consapevolmente una norma di legge sia la consapevolezza del beneficiario di ottenere una utilità non consentita e quindi ingiusta.

Anche questi cambiamenti sono tesi a garantire i principi costituzionali di imparzialità e di buon andamento della pubblica amministrazione, che costituiscono il bene giuridico tutelato dalla fattispecie di cui all’art. 323 c.p.

Tutte queste riforme, tuttavia, non raggiungeranno il loro fine, cioè quello di migliorare l’efficienza della Pa se non saranno seguite da una corretta applicazione giurisprudenziale delle stesse.
Non va dimenticato che ad essere troppo rigorosi si ottiene l’effetto opposto a quello desiderato: l’effetto di paura, di cautela e di inefficienza amministrativa.
Per usare le parole di Cavour, per volere troppo, non otterremo nulla.

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