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Charlie Hebdo, Dambruoso spiega la pista pakistana

La città di Parigi è stata nuovamente colpita da un attentato di matrice jihadista. A differenza degli attentati del 2015, per i quali i terroristi avevano utilizzato armi da fuoco ed esplosivi, quello di venerdì scorso è avvenuto con semplici armi bianche, ormai sempre più spesso utilizzate negli ultimi attentati in Europa. Sono in corso le indagini sulle vite e recenti spostamenti degli arrestati per comprendere chi siano i mandanti.

Gli scenari sul campo sono cambiati: l’Isis ha perso il suo territorio (l’autoproclamato Califfato) in Siria ed Iraq; invece al-Qaeda sembrerebbe sempre meno intenta ad attaccare il nemico lontano (cioè gli Stati Uniti e i Paesi occidentali), dedicandosi a una strategia che la vede inserirsi nei vari conflitti all’interno del mondo islamico. Comunque entrambe le organizzazioni terroristiche continuano a produrre un’incessante propaganda mediatica su internet funzionale a mantenere rilevanza all’interno del mondo jihadista e acquisire nuove reclute; ma anche necessaria a istigare simpatizzanti, a volte mai precedentemente entrati in contatto con ambienti jihadisti, ad agire, come avvenuto proprio per l’accoltellamento di Parigi. Il modus operandi ricalca gli attacchi avvenuti sul suolo francese negli scorsi mesi, dove singoli attentatori hanno utilizzato armi bianche, sia contro civili che contro le forze dell’ordine. Gli attentati improvvisati o con pianificazione minima sono molto difficili da prevenire soprattutto se l’attentatore non era conosciuto da parte delle agenzie di intelligence o di law enforcement.

Nell’attentato parigino autore dell’attacco sarebbe un diciottenne di origine pakistana, arrivato in Francia ancora minorenne solo pochi anni fa. Così come pakistani sono pure gli altri cinque presunti complici arrestati dall’antiterrorismo francese. A motivare gli attentatori sembrerebbe essere stata la ripubblicazione, da parte del giornale satirico Charlie Hebdo, delle vignette ritraenti il profeta Maometto, pubblicazione che ha provocato numerose  proteste nel mondo musulmano e minacce da parte dei gruppi jihadisti sul web. Al-Qaeda aveva subito puntato il dito ancora una volta contro Charlie Hebdo, minacciando fumosamente un nuovo attacco. Lo scorso venerdì, invece, il premier pachistano Imran Khan, durante il suo discorso per l’apertura della 75° sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, aveva accusato la rivista francese di islamofobia, chiedendo all’Onu di attivarsi con iniziative a tutela delle ragioni della Comunità religiosa islamica nel mondo. La cittadinanza degli arrestati potrebbe non essere occasionale: oltre allacostante propaganda fatta circolare in rete dai simpatizzanti europei della causa jihadista, diminuita ma non eliminata dalle costanti operazioni di intelligence ed Europol (con la sua Internet Referral Unit), essi possono aver fruito anche del materiale pubblicato dall’Isis per il subcontinente indiano, come la pubblicazione Sawt al Hind, che non a caso, nel suo ultimo numero, uscito a fine agosto, conteneva un articolo dal titolo “Le spade sguainate contro coloro che insultano il nostro Messaggero”. Ma anche l’organizzazione terroristica capeggiata da al-Zawahiri ha la propria rivista dedicata e diffusa nel subcontinente indiano dal nome Nawai Ghazwat al-Hind.

I più accreditati Esperti ed analisti di terrorismo hanno dimostrato come il desiderio di “vendetta” per la pubblicazione di vignette satiriche offensive della figura del profeta Maometto sia una delle giustificazioni principali per determinate i jihadisti all’azione. I precedenti, oltre all’attacco alla sede di Charlie Hebdo del 2015, infatti non mancano: si pensi all’assassinio del regista olandese Theo van Gogh (che aveva diretto un film critico sulla condizione della donna nell’Islam) nel 2004; così come i molteplici tentativi di omicidio nei confronti di Lars Vilk, autore svedese che aveva ritratto Maometto con fattezze canine; ma anche la pubblicazione di vignette satiriche da parte del quotidiano danese Jylland-Posten nel 2005, che portò Osama bin Laden in persona a minacciare la testata giornalistica e il Paese scandinavo. Nel 2008 al-Qaeda riuscì a portare a segno un attentato con un’autovettura esplosiva (vehicle-borne improvised explosive device) contro l’ambasciata danese in Pakistan ad Islamabad, uccidendo sei persone. E nell’anno seguente, l’organizzazione jihadista molto attiva in Pakistan Lashkar-e-Taiba, che ha il suo fronte principale nel Kashmir con l’obiettivo dichiarato di unificarlo al Pakistan, mandò un proprio agente in missione ricognitiva a Copenhagen, per organizzare un attacco contro la sede del giornale Jylland-Posten, poi non portato a termine.

Ma è importante ricordare che il Pakistan rimane uno dei pochi Paesi dove la blasfemia è punita con la pena di morte, fattore culturale che aiuta a comprendere l’aggressività nei confronti di coloro che si sono permessi di offendere l’Islam.

Nel frattempo, mentre Parigi è alle prese con un nuovo post-attentato, la giustizia penale continua a fare il suo corso: è infatti ripreso, dopo uno stop di mesi dovuto all’emergenza COVID-19, il processo sull’attentato alla sede di Charlie Hebdo del gennaio 2015, che vede al banco degli imputati ben 14 persone, accusate di aver fornito agli autori della strage, i fratelli Chérif e Saïd Kouachi, armi e supporto logistico. Ma la domanda che assilla oggi l’antiterrorismo francese è: a quando il prossimo?

Con l’ausilio per la ricerca di Francesco Conti, Master counter terrorism King’s College London.


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