Nel discorso della “Nuvola” di Fuksas dove la Uil preparava la scenografia per l’investitura del suo nuovo segretario Bombardieri, Giuseppe Conte ha avuto un paio di passaggi che raccontano un cambio di passo, se non ancora nella concreta attività di governo, quanto meno nella comunicazione politica.
Insomma non si è trattato soltanto di un protocollo di cortesia nei confronti del sindacato che lo ospitava, né dell’uso della tribuna per il consueto passaggio televisivo. Conte ha fatto due affermazioni “politiche” impegnative: una riferita alla “riforma organica del fisco” e l’altra al “ventennio perduto” dalla politica e dal governo. Che cosa vogliono dire queste affermazioni? Cominciamo dall’ultima.
Nell’ultimo ventennio (ma probabilmente la formula è una sineddoche della seconda Repubblica e vuole risucchiare dentro tutti i governi prima del 2018, cioè prima dell’avvento di Conte) si sino alternati governi di centrodestra e governi di centrosinistra, con protagonisti come Berlusconi, Prodi, D’Alema, un po’ di tecnici e poi nell’ultimo tratto di strada prima della “Terza Repubblica “, Letta, Renzi, Gentiloni. Insomma: parecchi fra gli attuali alleati di governo. Potremmo persino essere d’accordo nel giudizio sul tempo perso, tuttavia anche se in questa stagione un po’ fru fru che viviamo oggi le parole forse non sono più pietre come una volta, bisogna ricordare che in politica le cose dette continuano ad avere un loro peso.
Se io dico, allora, che stiamo a perdere tempo da vent’anni, visto che prima non c’ero, mi rivolgo agli altri, ai partiti che c’erano, dunque anche ai miei alleati. È un po’ la narrazione della politica nuova che rincorre sempre i miti fondativi: Berlusconi nel 1994 faceva di tutto per mettere una distanza siderale tra il “prima” e il suo “avvento”, cominciando a contare la Storia d’Italia dalla sua vittoria alle elezioni.
Prima di lui, e assai più tristemente, ci furono altri nello scorso secolo che lo fecero coi numeri romani. Ma nel caso di Conte questa citazione del tempo perso nel ventennio alle spalle può avere un solo significato: è senza responsabilità solo chi nel ventennio non c’era. Cioè i Cinque Stelle. E qui, allora, si leggerebbe una trasmutazione del capo del governo dal cerchio magico del “ruolo tecnico” in cui si era riparato, a quello “politico” di una militanza nel movimento che pure lo aveva indicato come premier.
Assai interessante è il riferimento al fisco. Una riforma organica, si legge, che agisca sulla trasparenza, sulla semplificazione, sul minor aggravio. Condivisa l’urgenza della riforma fiscale – non aggiungiamo parole alle intere biblioteche riempite negli ultimi vent’anni dai dibattiti sul tema – ci domandiamo, al di là dell’ottimo proposito, come si pensa di farvi fronte. Perché, alla fine della fiera, siamo sempre lì: l’area dell’evasione sottrae risorse all’Erario e provoca il maggior peso sulle spalle dei cittadini. Se non si incide lì, facciamo solo fuffa, con un fisco-orco che digrigna i denti nei confronti del cittadino sulle cui spalle grava l’onere di dimostrare che non è un fuggito dalla confraternita dei trafficanti colombiani.
La vera domanda, allora, è perché nel famigerato ventennio della seconda Repubblica non si è messo mano ad una riforma in grado di indurre al comportamento virtuoso attraverso il “contrasto d’interessi”? In sostanza: se io contribuente posso dedurre tutte le spese che affronto per il ménage familiare, avendone non solo benefici fiscali, ma anche altre forme di recupero, per esempio previdenziale (in questo caso parleremo di “accordo di interessi”), sarò invogliato a certificare ogni transazione, dalla più piccola alla più grande, e così spingendo ogni altro ad assumere comportamenti analoghi.
Nel nostro tristo ordinamento fiscale c’è un regime inquisitorio ma non premiale, a differenza di quanto non accada in altri ordinamenti, a cominciare da quello francese. Ecco, Conte potrebbe domandarsi perché. E metterci mano concretamente, guadagnando imperitura riconoscenza da parte degli italiani per bene. È troppo difficile?