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Benvenuti nell’era della protesta urbana globale

Dopo Istanbul e San Paolo, anche le strade del Cairo tornano ad infiammarsi. In Egitto il motivo dello scatenarsi delle proteste dell’opposizione è l’indicazione del governatore di Luxor (uomo considerato vicino ad Al Qaeda) da parte del presidente Morsi, le cui basi sono rese instabili anche dallo sfilacciarsi della Fratellanza musulmana.

Diritti di cittadinanza
Vi è un filo conduttore che colleghi fenomeni così diversi, in luoghi così distanti?
Sì, è la grande città. La megalopoli, per l’esattezza, che assembra milioni, a volte decine di milioni di individui attratti dalle sue promesse economiche, in difficile equilibrio tra realizzazione personale e rischi di sradicamento. E inoltre, sia per Istanbul che per San Paolo si può parlare di fenomeni anti-casta, che condensano risentimento e malessere verso le città del potere (Ankara e Brasilia), le capitali politiche percepite spesso come distanti luoghi di privilegio e corruzione. Secondo il Frankfurter Allgemeine Zeitung il tratto comune a tutti questi “soggetti rivoluzionari” sono i diritti di cittadinanza e la ridefinizione del loro perimetro di libertà, di autoaffermazione e di dignità.

Una nuova rivoluzione borghese
La grande novità è che manca un alfabeto politico che sia in grado di contenerle e rappresentarle, al di là di un generico progressivismo. La presidente Roussef ha parlato di “nuove energie politiche”, riconoscendo esplicitamente che, per i canoni delle forze tradizionali, quella che emerge nelle strade delle grandi democrazie urbanizzate con potenti nuclei post-moderni, è ancora un’indefinita nebulosa. Come sottolinea il giornale tedesco, su questo sostrato non agisce il vecchio classismo operaio e l’ambizione di controllare i mezzi di produzione, ma un sentimento di deprivazione relativa di democrazia, di un deficit di regimi politici che sono sì liberali, ma non nel senso pieno dei diritti di cittadinanza.

Modelli eurasiatici in crisi
Le agenzie tradizionali come forze armate nazionali (in Egitto e Turchia) o affiliazioni religioso-politiche (Fratellanza islamica) non riescono a incanalare e trasformare in prospettiva di governo questi impulsi, né a comprendere ancora le aspirazioni di un ceto medio che si percepisce e in gran parte è internazionalizzato nei gusti, nelle preferenze, nelle psicologie e negli stili di vita. E’ il tema che si pongono, con uno sguardo più avanzato di altre potenze, gli Stati Uniti e i suoi think tank. Al punto che non mancano, nei media Usa, proposte di sostenere con più forza sommovimenti in corso o potenziali in altre piazze a Tokyo, Seoul, Nuova Delhi e Mosca, grandi Paesi dove non manca la democrazia in assoluto, ma alcuni settori ne coltivano una radicalizzazione liberale.

Rappresentazione vs rappresentanza
Allo sguardo geopolitico “eurasiatico”, quei Paesi sono destinati a rovesciare gli equilibri globali nei prossimi decenni, instaurando un multipolarismo che ridurrà l’influenza americana nel mondo. Intanto, però, sono i modelli politico-ideologici postmoderni à la Occupy Wall Street, che si diffondono in questi Paesi, catturando l’attenzione di minoranze in grado di lavorare sul fronte mediatico. Non è un caso che già in Argentina nelle manifestazioni contro la Kirchner e ora in Brasile una delle rivendicazioni della piazza sia la “rappresentazione” dell’evento-rivolta agitata come una sfida al principio di rappresentanza parlamentare, con l’immediatezza del documentario in super-8, dello streaming e del filmato su Youtube usata contro i vecchi assetti mediatici filogovernativi.

I limiti dell’influenza americana
E’ un tema congeniale ad una potenza come gli Usa che ha nel Dna la battaglia per i media (messaggio e immagine) come terreno politico di scontro. Tuttavia il rapporto con queste piazze urbane globali non è così diretto e semplice, perché le schegge impazzite della vicenda Nsa, per esempio, si ribaltano all’interno contro le istituzioni federali, e possono essere utilizzate (come in effetti già avviene) da Cina, Iran e Russia per evidenziare i limiti della concezione americana dell’ordine internazionale democratico e il dominio interno delle big corporations in contrasto con la retorica libertaria del patto federativo nazionale.



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