La web tax, il confronto Usa-Cina, il ruolo dell’Unione europea e la corsa al primato tecnologico. Formiche.net ne ha parlato con Alessandro Aresu, analista strategico e consigliere scientifico di Limes, autore del volume Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina per La Nave di Teseo (collana Krisis, diretta da Massimo Cacciari e Natalino Irti).
Parliamo di web tax. Che cosa accadrà dopo il ritiro degli Stati Uniti dai negoziati in sede Ocse?
La temperatura sul tema è destinata ad aumentare, visto anche che la controparte europea non può restare ferma ad attendere che gli Stati Uniti decidano cosa fare. Le due posizioni sono estremamente lontane, sia sul piano bilaterale sia su quello multilaterale. Penso che questo rappresenti un elemento strutturale di conflitto tra Stati Uniti e Unione europea.
Qualcosa potrebbe cambiare dopo le elezioni presidenziali statunitensi di novembre?
Le elezioni hanno sempre un valore relativo. In questo caso, in particolare, perché c’è una corsa tra diversi attori a impadronirsi dei proventi dalla tassazione su alcune società. Dal lato statunitense, il tema riguarda la crescente americanizzazione nell’immagine pubblica e politica delle società digitali americane: in un decennio molto è cambiato, le società che si raccontavano come sovranazionali e mondiali, oggi si descrivono maggiormente come statunitensi anche per via del conflitto tra Stati Uniti e Cina. E questo per gli Stati Uniti significa una maggiore possibilità di aggredire i loro proventi dal punto di vista fiscale a livello domestico.
E dal lato europeo, invece?
Ciò che interessa ai Paesi europei è di avere questi proventi per finanziare i piani di ripresa.
Due posizioni evidentemente in conflitto.
Si tratta di due interessi estremamente confliggenti: o a me o a te. Su questo, però, si innesta l’importanza per gli Stati Uniti del rapporto con gli alleati. Per questo è naturale pensare che, se eletto, Joe Biden potrebbe avere un approccio maggiormente favorevole verso la ricostruzione, anche in termini pubblici e retorici, del rapporto con gli alleati. Ma il tema delle alleanze — in Asia quanto in Europa — sarà rilevante anche per un eventuale secondo mandato di Donald Trump. Nonostante la necessità di alleanze per gli Stati Uniti, l’arena digitale rimarrà un’area di potenziale conflitto, dalla tassazione all’antitrust.
In questo quadro, l’Unione europea sembra aver trovato una certa compattezza.
In passato le decisioni sulle varie tassazioni digitali erano effettivamente più scoordinate. Adesso abbiamo dei provvedimenti nazionali che si rifanno in modo molto più chiaro a un contesto europeo, a un quadro UE. Tant’è che l’ultimo annuncio di investigazione alla luce della sezione 301 sulle tassazioni dei servizi digitali da parte del rappresentante del Commercio degli Stati Uniti menziona anche l’Unione europea.
Quali sono gli effetti di questa evoluzione?
Un maggiore coordinamento ha rafforzato la posizione europea. D’altra parte, l’Ue è caratterizzata al suo interno da differenze di tassazione molto rilevanti e una revisione di tassazione complessiva sarebbe una partita ancora più difficile rispetto a quella della web tax. Come detto, non penso che questa conflittualità sul digitale con gli Usa si possa risolvere facilmente. Il prossimo passaggio per farlo però è sicuramente avere chiarezza sugli obiettivi. E questo si interseca anche con un ragionamento più ampio su Europa ed economia digitale.
In che senso?
Nella retorica della Commissione europea c’è stata fin dell’inizio l’idea di lavorare a una Commissione geopolitica, a un’Europa geopolitica. Uno degli elementi più rivelanti in cui questo può avvenire è tenendo assieme tutti i pezzi del digitale, che riguardano la tassazione ma non soltanto: in prospettiva, questioni industriali come i progetti europei sui semiconduttori oppure quelli sul cloud dovrebbero a mio avviso essere estremamente più rilevanti per il decisore europeo perché sono le uniche che consentono di proiettare potenza e ridurre la subordinazione europea rispetto a potenze della geopolitica della tecnologia cioè Stati Uniti, Cina, ma anche Corea del Sud, Giappone e Paesi che corrono più in fretta. Non esiste un’Europa geopolitica — come non esiste la capacità reale degli Stati membri — senza un vero salto di qualità sulla tecnologia e sul trasferimento tecnologico.
Parliamo di 5G. Qualche giorno fa Eric Schmidt, ex Ceo di Google oggi a capo del Defense Innovation Board del Pentagono, ha parlato alla Bbc accusando Huawei di “pratiche inaccettabili” ma ha anche invitato a eliminare i pregiudizi anticinesi: “I cinesi sono altrettanto bravi, e forse migliori, dell’Occidente nei settori chiave di ricerca e innovazione”. E ancora: “Stanno investendo più soldi. Ma in modo diverso rispetto all’Occidente, diretto dallo Stato. Per competere, dobbiamo coordinare gli sforzi”. Che significato ha questa intervista?
Il messaggio di Schmidt dimostra maturità e capacità di evolvere il suo pensiero: infatti, era stato lui in passato a profetizzare due internet, uno statunitense e uno a controllo cinese. Oggi ammette che una separazione netta tra i due sistemi non è affatto facile da realizzare. Anche quando parla dal Pentagono, i suoi interventi puntano all’indebolimento relativo della capacità cinese anche attraverso l’utilizzo di una maggiore politica di alleanze e di penetrazione digitale delle aziende statunitensi in altri Paesi asiatici, che sono un’arena di confronto probabilmente anche più importante dell’Europa in questo decennio.
Per fronteggiare il ruolo della Cina nell’Indopacifico ma anche in Europa, gli Stati Uniti pare stiano lavorando (attraverso il Regno Unito) a un D10, un club delle dieci democrazie che riunisca i Sette grandi più Australia, Corea del Sud e India e che lavori per sviluppare alternative ai colossi cinesi della tecnologia, a partire da Huawei.
Non sono prospettive tanto diverse da quelle che venivano perseguite dall’amministrazione Obama sulla politica commerciale. Ci sono due scuole di pensiero. Da una parte ci sono quelli convinti che gli Stati Uniti siano sufficientemente forti nella loro configurazione dell’Anglosfera, dei Five Eyes e quindi è sufficiente rafforzare ulteriormente questi rapporti (anche perché Australia e Nuova Zelanda sono presenti in quello scenario geostrategico) dal punto di vista commerciale e tecnologico. Dall’altra, quelli secondo cui questo assetto non è sufficiente: le politiche commerciali e tecnologiche richiedono quindi di serrare le relazioni con alcuni dei principali attori del Sud-Est asiatico che non amano la Cina, in ottica marcatamente anticinese. In diversi configurazioni, questa seconda teoria è perseguita dagli Stati Uniti. A prescindere da come decidano di chiamarla, penso che continuerà a essere perseguita nel medio termine, sia da Biden che da Trump.
Un vero decoupling tra Stati Uniti e Cina è alle porte?
Penso abbia costi molto rilevanti. Non dobbiamo dimenticarci che esistono numerose realtà, in particolare nella tecnologia e nel digitale, che si impigliano tra un sistema e l’altro e che mentre gli strateghi parlano di decoupling ottengono grandi risultati di mercato. Per questo, è più razionale per gli Stati Uniti perseguire l’indebolimento relativo della posizione cinese, anche attraverso le alleanze asiatiche.
Anche sul fronte del 5G? Gli Stati Uniti potrebbero davvero decidere di investire nell’industria europea delle reti di quinta generazione?
È da tanto che ne sentiamo parlare. Però la capacità di realizzazione statunitense di un contrattacco su prodotti commerciali, complementare alla leva sulla sicurezza e la politica delle alleanze, non si è ancora materializzata in una realtà all’altezza delle aspettative. È probabile e razionale pensare che possa avvenire ma non vediamo ancora con chiarezza come si possa concretizzare. Anche questo è stato un sintomo del ritardo con cui il “capitalismo politico” statunitense ha affrontato il tema industriale del 5G, su cui pur la temperatura è molto calda.