La scorsa settimana Robert Lighthizer, rappresentante del Commercio di Washington, ha annunciato un’indagine contro diversi Paesi, tra cui l’Italia, sulle tasse ai servizi digitali. Il nostro Paese rischia (di nuovo) l’imposizione di dazi. Di questo e della posizione italiana ed europea nello scontro tra Stati Uniti e Cina Formiche.net ha parlato con Ivan Scalfarotto, sottosegretario agli Esteri e deputato di Italia Viva.
Sottosegretario, l’Italia è di nuovo, o forse ancora, nel mirino degli Stati Uniti?
Siamo nel mirino, visto che ci è stata notificata l’apertura di un’indagine sulla digital service tax. Ma l’Italia non è sola, la stessa indagine è stata aperta nei confronti di altri Paesi che pure hanno approvato normative simili — e questa è la posizione che gli Stati Uniti hanno sempre anticipato, anche a me direttamente, nel corso della visita a gennaio per la vicenda dei dazi Airbus. È una posizione nota al governo italiano, dato che Washington ha sempre detto molto apertamente che soltanto l’amministrazione statunitense può tassare le aziende statunitensi. Che secondo me è un’affermazione abbastanza discutibile.
In che senso?
È un tema molto presente nel dibattito pubblico e dobbiamo prendere atto che l’economia è cambiata. Non viviamo più un ambiente esclusivamente manifatturiero, dove le cose erano più semplici. In un’economia digitale, nella quale anche i confini territoriali si fanno più difficili da definire, è necessario che gli Stati si dotino di strumenti in grado di governare questi nuovi fenomeni. È giusto che chiunque crei del valore in un territorio contribuisca anche alla comunità dello stesso pagando le tasse.
Per questo si aspetta anche la decisione dell’Ocse?
L’Italia e altri Paesi come la Francia hanno sempre detto agli Stati Uniti che serve trovare un accordo in sede Ocse, in cui noi faremo la nostra parte in modo molto proattivo affinché si raggiunga un’intesa equa e che soddisfi tutti. Dagli Stati Uniti ci aspettiamo un atteggiamento non soltanto di chiusura pregiudiziale ma di lavoro comune come si fa tra Paesi amici e partner.
Sulla digital service tax sembra che il coronavirus abbia compattato i 27 Stati membri dell’Unione europea. Abbiamo letto anche di commissari che hanno fatto appello all’imposta per finanziare la ripresa. Ma esiste un posizione comune?
Sempre più Paesi se ne stanno occupando anche se si tratta di competenze nazionali. Ma la questione preesiste al coronavirus. Al di là di quello che si vuole fare con i proventi della digital service tax, la ragione del dibattito attorno a essa non è il coronavirus bensì il principio a cui ho fatto riferimento prima cioè l’adeguamento degli strumenti fiscali al cambiamento dell’economia.
Ieri la Commissione europea ha annunciato la nuova strategia europea contro la disinformazione (in particolare quelle russa e cinese) attraverso una collaborazione con i big tech tra cui Facebook, Google e Twitter. Si lega in qualche modo al dibattito sulla tassazione?
Francamente trovo un po’ acrobatico il collegamento tra queste due cose. Una vicenda riguarda l’uso spregiudicato dei social media per influire sui dibattiti politici nazionali, l’altra, che secondo me non va caricata di particolari significati politici, ha a che fare con i principi basilari di equità e di civiltà.
La tassazioni sui giganti del Web sarà un tema al centro del dibattito dei prossimi Stati generali dell’Economia voluti dal premier Giuseppe Conte?
Questo bisognerebbe chiederlo a chi li organizza. Personalmente non ne ho idea.
Allarghiamo lo sguardo. Come vede lo scenario geopolitico dopo l’escalation Stati Uniti e Cina?
L’amministrazione Trump ha segnato un ribaltamento delle dinamiche di politica estera. Eravamo stati abituati a una Cina abbastanza introversa e un’America molto estroversa. Con Donald Trump e Xi Jinping assistiamo a un capovolgimento, con una Cina sempre più estroversa e un’America sempre rivolta al proprio interno al fine di “make America great again”. Uno degli effetti di questo è la decisione a inizio mandato di Trump di uscire dal Tpp, che era stato immaginato da Barack Obama come uno strumento commerciale utile anche a limitare la voglia di grandeur cinese. È evidente che l’uscita di Washington ha offerto a Pechino un mercato e un’influenza non solo commerciale sull’area asiatico-pacifica che prima gli americani tendevano a contrastare.
E l’Europa?
Noi siamo sempre stati abituati — e ne abbiamo avuto anche il lusso — a essere un gigante economico e un nano politico, perché abbiamo sempre delegato agli Stati Uniti la politica estera e di difesa. Abbiamo sempre sperato che fossero gli Stati Uniti a risolvere i problemi anche in aree vicine a noi come il Medio Oriente e il Nord Africa. Ora non è più così. Ed è la ragione per cui l’Europa si è trovata già prima della crisi Covid-19 a dover porsi il problema di diventare anche un gigante politico, visti anche i segnali che abbiamo ricevuto in questi anni che gli Stati Uniti di Trump ci ritengono un competitor come un altro. L’Europa deve darsi una politica estera sua propria e deve essere più presente negli scenari politici, il che ovviamente comporta, anche in tema di difesa, un atteggiamento nuovo. E la crisi del Covid-19 ci spinge verso forme di integrazione molto più intense di un tempo.
C’è grande dibattito sugli accordi commerciali, tra Stati Uniti e Cina, ma anche tra Cina e Unione europea. Ma tra Stati Uniti e Unione europea?
Il caso Airbus ha messo in luce che esistono problemi commerciali anche tra Europa e Stati Uniti. E va sottolineato che l’amministrazione Trump ha firmato molti accordi, non solo con la Cina ma anche con Messico e Canada, con il Giappone. Si può dire che a questo punto manchiamo solo noi.
Come procede il negoziato con la Cina dopo il rinvio a data da destinarsi del summit previsto a settembre nella città tedesca di Lipsia?
L’accordo sugli investimenti si pensava si potesse chiudere sotto la prossima presidenza tedesca dell’Unione europea. Ma dubito si riesca a fare perché il Covid-19 ha fermato i lavori e anche perché penso che sia molto importante arrivare a un’intesa ben fatta, che non si limiti a registrare lo status quo. Serve un accordo ambizioso, non bisogna firmare un patto soltanto per…
Per farlo rientrare nei sei mesi di presidenza tedesca?
Questo lo ha detto lei.
Secondo lei è necessario in questa fase riaffermare di essere amici e alleati degli Stati Uniti?
È sempre preoccupante quando bisogna dire troppe volte una cosa, vuole dire che serve dare rassicurazioni. Io sono un grande estimatore della Cina, da sottosegretario allo Sviluppo economico nei governi Renzi e Gentiloni ho visitato la Cina undici volte in 18 mesi, ho partecipato alla prima Belt and road initiative con il premier Paolo Gentiloni, ho grande ammirazione per i progressi fatti negli ultimi mesi: sono tutto fuorché un nemico della Cina. Penso però allo stesso tempo che non si debba mai confondere Paesi che sono amici e partner commerciali con i nostri alleati storici, quei Paesi con cui condividiamo valori democratici che sono parte integrante della identità occidentale. Sarebbe auspicabile non doverlo dire perché dovrebbe essere ovvio.
Possiamo riprendere la definizione della Commissione europea della Cina: partner economico strategico ma rivale strategico in termini di governance.
A me non piace parlare di rivalità. Ci sono profonde diversità ma anche grandi punti di contatto e opportunità. E proprio perché c’è un rapporto di amicizia possiamo dirci anche le cose su cui non siamo d’accordo. Con i nostri amici cinesi dobbiamo fare di tutto per rendere la partnership economica reciprocamente fruttuosa ma non bisogna avere nessuna remora a dire, con rispetto ma anche fermezza, quali sono i punti su cui ci sono delle diversità di approccio. E non penso solo alla tematica dei diritti umani ma anche, per esempio, a questioni commerciali come la reciprocità, la trasparenza degli investimenti e la difesa della proprietà intellettuale.
Ultima domanda alla luce delle voci su una sua possibile candidatura per la presidenza della Regione Puglia. Che cosa farà a settembre?
Faccio il sottosegretario con grande soddisfazione e continuo a fare quello finché qualcuno non mi chiede di fare qualcos’altro. Ma posso dirle che sin qui non è successo.