Nel corso del recente dibattito sulle misure da adottare per favorire la ripresa degli investimenti in economia, è stata avanzata l’ipotesi di un ampliamento degli atti da sottoporre al controllo preventivo della Corte dei conti nella materia dei contratti pubblici (oggi la Corte controlla preventivamente solo i decreti che approvano i contratti delle amministrazioni statali). Per i fautori di tale proposta, un simile controllo, con la conseguente esclusione della responsabilità per colpa grave del dirigente pubblico che adotta gli atti di gara, consentirebbe di contrastare il fenomeno della cosiddetta burocrazia difensiva; quanti, invece, si dichiarano contrari, evidenziano il conseguente appesantimento del procedimento.
Indubbiamente, se motivata solo dalla volontà di creare una sorta di scudo erariale, la misura si appaleserebbe, contemporaneamente, frustante per i tutori del buon uso delle pubbliche risorse e avvilente per i (tanti) dirigenti pubblici che svolgono con competenza e professionalità i propri compiti e non ne temono le responsabilità la stessa, però, potrebbe avere un’ulteriore e più nobile funzione.
In una delle pagine più acute delle “Memorie di Adriano”, il protagonista si interroga sul futuro di Roma. L’imperatore romano Adriano preconizza per la sua città, i cui confini hanno ormai superato quelli dell’Urbe per coincidere con quelli dello stesso Impero, un destino diverso delle grandi capitali del passato che egli ha visitato. Roma, a differenza di Tebe, Babilonia o Tiro ha ormai trasceso i limiti del mondo materiale per divenire il simbolo di un nuovo modello di società destinato a durare nei secoli e a conformare a sé ogni futura organizzazione sociale: “… ovunque vi siano magistrati intenti a verificare i pesi dei mercanti, a spazzare e illuminare le strade, a opporsi all’anarchia, all’incuria, alle ingiustizie, alla paura, a interpretare le leggi al lume della ragione, lì Roma vivrà. Roma non perirà che con l’ultima città degli uomini”.
Il medesimo approdo cui Marguerite Yoircenar era pervenuta con una felicissima intuizione poetica, è raggiunto, grazie ad una imponente ricostruzione filologica e giuridica, da Aldo Schiavone con il suo Ius, l’invenzione del diritto in Occidente. Attraverso la ricostruzione puntuale dell’evoluzione del diritto romano, veniamo condotti lungo un percorso secolare che, da un lato, ha consentito al diritto di sostituirsi alla religione come regolatore dei rapporti umani, rendendo le leggi conoscibili anche agli estranei alle caste sacerdotali e, dall’altro, ha lentamente raffinato dalla massa enorme delle pronunce dei giureconsulti una serie di principi generali, capaci di far sorgere dall’analisi casistica delle vicende concrete un corpus juris completo e valido per le future ed infinite vicende generali ed astratte che si sarebbero potute presentare.
Seppure con le dovute cautele (imprescindibili ogni qualvolta si esaminano eventi storici avvenuti in epoche assolutamente diverse dalla nostra), non si può nascondere che l’invenzione del diritto da parte del mondo romano segnò un importante passo verso la società attuale: la conoscibilità delle norme favorì la prevedibilità delle conseguenze dell’agire umano, con ciò stesso responsabilizzando l’individuo e consentendone un primo affrancamento dal potere dei pochi detentori della conoscenza delle regole.
Numerosi secoli dopo, i frutti di quell’elaborazione giuridica apparivano già in buona parte dispersi. Durante una disputa dottrinale, Santi Romano, che ricordava con orgoglio al suo collega tedesco, Hans Kelsen, come il nostro Paese fosse universalmente riconosciuto quale culla del diritto, si sentiva rispondere che ormai l’Italia era divenuta patria non già del diritto ma delle leggi. Nella fulminante battuta di Kelsen emerge la consapevolezza della distanza tra l’acme dell’evoluzione giuridica romana e la situazione che si presentava nella nostra Penisola all’inizio del secolo scorso, dove un susseguirsi di leggi stava rompendo il disegno unitario dell’ordinamento e iniziava già ad erodere il principio di certezza del diritto, senza il quale lo stesso concetto di responsabilità individuale diviene precario ed instabile.
Oggi, a circa un secolo da quella disputa, la distanza rispetto all’elaborazione classica è aumentata ancor di più, al punto che si potrebbe dire che da Paese delle leggi l’Italia si appresta a divenire il Paese delle deroghe. Negli ultimi anni, infatti, abbiamo assistito, accanto a tentativi più o meno decisi di semplificazione, ad una sempre maggiore rincorsa a legiferare su fattispecie specifiche e puntuali. Accanto ad un diritto emergenziale cui si è fatto ricorso sempre più frequentemente (basti pensare ai corpus normativi emanati per ciascun evento sismico che ha interessato l’Italia negli ultimi anni, alla complessa normativa in tema di Ilva fino alle recenti norme emanate per l’emergenza Covid 19), si è sviluppata, all’interno di complessi ordinamentali più ampi e sistematici, una fitta ragnatela di norme puntuali, spesso derogatorie rispetto alle prime, nate dall’esigenza di dare risposte specifiche a esigenze concrete e temporanee.
Una tale deriva, favorita anche dall’esigenza politica di dare risposte immediate ad un’opinione pubblica sempre più esigente, ha favorito la creazione di un sistema normativo di difficile interpretazione anche da parte degli stessi tecnici, anch’essi spesso paralizzati dalle norme che hanno contribuito a redigere. Un esempio, da più parti citato, è costituito, per l’appunto, dalla materia dei contratti pubblici, un settore affollato da norme molteplici e disomogenee, che vede coinvolte fonti di rango costituzionale, comunitario, primario e secondario, dove il rischio di proliferazione delle fonti e di conseguente perdita di sistematicità ed organicità dell’ordinamento di settore è stato da tempo denunciato e dove l’esigenza di certezza e stabilità delle situazioni giuridiche è sempre più avvertita dai privati e dalle stesse amministrazioni.
Oggi, in una fase storica in cui è ancor più necessario eliminare ogni inutile ostacolo sulla strada della ripresa economica, l’esigenza di conseguire la certezza del diritto appare ancor più improcrastinabile. Non c’è dubbio che ad un simile obiettivo debba in primo luogo concorrere il legislatore, che dovrebbe imprimere alla sua azione una decisa svolta nel segno della razionalizzazione della produzione normativa, prediligendo norme chiare, generali ed astratte piuttosto che l’attuale profluvio di disposizioni puntuali e dense di numerosi dettagli tecnici.
Ma in quest’opera di semplificazione vanno coinvolte tutte le strutture del Paese, né possono sentirsi esentate le stesse magistrature. In tale processo, un ruolo di particolare rilievo può essere svolto dalla Corte dei conti. In ragione dell’ampia gamma delle funzioni attribuitele dall’ordinamento (controllo, consultiva, requirente e giudicante) e del suo radicamento centrale e regionale, la sua azione non si concentra solo sul momento patologico del giudizio ma accompagna tutta il fisiologico dispiegarsi dell’attività amministrativa: verifica la legittimità degli atti più rilevanti prima che acquistino efficacia, valuta ex post l’efficienza di complesse gestioni pubbliche e delle relative società partecipate e, in taluni casi, accerta la responsabilità dei singoli per danno all’erario.
La Corte dei conti può, quindi, costituire un utile alleato per adiuvare le amministrazioni nel difficile compito di districarsi tra le numerose e oscure norme che affollano il settore dei contratti pubblici e così facendo contribuire non solo alla riaffermazione del diritto ma anche alla più celere ripresa economica del Paese.
In particolare, questo compito può essere assolto in sede di controllo preventivo, proprio per l’evidente funzione conformativa dell’azione amministrativa che esso può svolgere. In altri termini, un vaglio preventivo dei più significativi atti del complesso processo di approvazione di un contratto pubblico (va da sé che l’incondizionata sottoposizione a tale tipo di controllo di tutti gli atti del procedimento impedirebbe qualsiasi controllo rigoroso e si risolverebbe solo in una inutile perdita di tempo) da parte di una magistratura specializzata, quale è la Corte dei conti (la materia dei contratti pubblici rappresenta da sempre uno dei fondamentali aspetti della contabilità pubblica), consentirebbe di risolvere in radice i tanti dubbi interpretativi che l’intricata normativa crea e renderebbe più sicura e spedita la successiva azione delle amministrazioni, rafforzando la certezza del diritto e la consapevolezza da parte degli amministratori della legittimità del proprio operato.