Il rapporto tra Andreotti e Wojtyla attraversa ventisette anni di storia nei quali è cambiato il mondo, con una velocità e una intensità forse senza precedenti. Dall’ottobre del 1978 (che fu definito l’annus horribilis) al 2005, anno della morte di Giovanni Paolo II, si sono consumati processi storici che potrebbero riempire un secolo: la fine dei regimi comunisti nell’Est Europa, la nascita dell’Unione Europea, l’attacco alle Torri gemelle, le tempeste finanziarie internazionali, la globalizzazione, la rivoluzione del web.
Wojtyla è stato un papa “che ha dato del tu alla storia”, ha scritto Andrea Riccardi nella sua biografia di Giovanni Paolo II, e sul quel piano ha incontrato Giulio Andreotti, politico cattolico che ha sempre cercato il dialogo, la pace, la comprensione tra i popoli, anche dove sembrava impossibile. È, infatti, soprattutto il tema della pace nel mondo a creare un rapporto tra i due. Un tema fondamentale per tutti i pontefici degli ultimi centocinquanta anni e che nel lungo pontificato di Giovanni Paolo II assunse una forza particolare. E in modo significativo Andreotti, nel corso della testimonianza che rilasciò per la causa di beatificazione di Giovanni Paolo II, non sottolineò il ruolo del papa nel crollo dei regimi dell’Est, quanto “lo stupendo ampliamento della rete diplomatica della Santa Sede. Mancano ancora la Cina e l’Arabia Saudita – dichiarò Andreotti al postulatore – ma ci si dovrà arrivare. Certamente tappe come Israele, Libia e Autorità Palestinese sono state meravigliose”.
L’elezione di Giovanni Paolo II, il 16 ottobre 1978, aveva sorpreso anche Giulio Andreotti, allora presidente del Consiglio italiano. Non tanto perché il conclave aveva scelto un papa straniero dopo 455 anni, quanto perché, per la prima volta, il papa era più giovane di lui e soprattutto perché era salito al Soglio pontificio un cardinale che Andreotti non conosceva personalmente. L’unico contatto era stato l’aver pubblicato sulla rivista Concretezza, di cui era direttore, l’intervento al Sinodo dell’allora arcivescovo di Cracovia. Eppure tra i due si stabilisce subito un rapporto saldissimo, sia personale che di collaborazione tra le due sponde del Tevere.
Già il 4 novembre 1978, tre settimane dopo la sua elezione, Giovanni Paolo II scrive una lettera “al diletto figlio, onorevole Giulio Andreotti” assicurando la sua preghiera per “il suo impegno cristiano, per l’alta missione che Ella svolge al servizio dell’Italia e per la sua instancabile opera di pace e fratellanza nell’ambito delle sue attività internazionali”. Un attestato di fiducia non scontato, visto che solo sei mesi prima Andreotti, come presidente del Consiglio, aveva firmato la legge sull’aborto, per non lasciare senza governo un’Italia sotto shock per la tragica fine di Aldo Moro: “Il giorno più nero della mia vita” lo definì in seguito Andreotti.
La prima cosa che colpì Andreotti di Wojtyla erano le origini umili, come quelle di Roncalli e Luciani, l’aver perso presto i genitori, il suo essere seminarista clandestino e al contempo operaio della Solvay, per sfuggire alla deportazione durante l’occupazione nazista della Polonia. Sarà proprio la Polonia con il viaggio del papa del 1979 a cementare tra i due un rapporto di fiducia e amicizia: “Andreotti ascoltava la Santa Sede e la Santa Sede ascoltava lui”, scrisse il cardinale Ersilio Tonini. Non fu sempre così, ma la fiducia riposta in Andreotti, anche in casi di una certa delicatezza, come impedire la pubblicazione delle fotografie del papa in piscina, era di certo grande. E non venne meno neanche quando Andreotti dovette affrontare dieci anni di bufera giudiziaria: Wojtyla non credeva alle accuse contro Andreotti, ed era lo stesso papa che nel giugno del 1993 aveva lanciato un durissimo anatema contro la mafia, dalla Valle dei Templi in Sicilia.
Nei dieci anni del processo confermò la sua solidarietà ad Andreotti sia in privato che pubblicamente, incurante delle eventuali polemiche: lo chiamò a sé in Piazza San Pietro il giorno della beatificazione di padre Pio nel 1999, gli fece presiedere il Giubileo dei parlamentari in Vaticano nel 2000, approvò la laurea honoris causa che la Lateranense assegnò ad Andreotti nel 2004. Dall’altra parte, in una lettera privata a Giovanni Paolo II del 30 ottobre 2003, Andreotti riassume così gli elementi fondamentali che lo sostennero mentre affrontava i processi: “Debbo a Vostra Santità e a Madre Teresa (che venne nel mio studio e mi disse: ‘Sarà lunga, ma non abbia preoccupazioni’) se ho resistito”. L’ammirazione incondizionata per Madre Teresa di Calcutta è, infatti, un altro punto che unisce i due.
Nel suo libro di memorie, il cardinale Fiorenzo Angelini racconta che Giovanni Paolo II, all’inizio della bufera giudiziaria gli chiese: “Perché attaccano Andreotti?”. Il cardinale romano gli rispose: “Per il ruolo che l’Italia e Andreotti hanno avuto in questi anni nel processo di unificazione europea, per la sua politica sul Medio Oriente, che poi è la stessa della Santa Sede e per liquidare la Democrazia cristiana”. Angelini era un grande amico di Andreotti, ma era soprattutto un ecclesiastico che sapeva guardare con realismo il mondo, come il Papa che aveva di fronte. Secondo una linea interpretativa l’arrivo di un papa polacco aveva segnato anche la fine dell’interesse dei pontefici per la politica italiana e per la Dc. Andreotti non è mai stato di questa idea e sempre nella testimonianza che rese per la beatificazione di Giovanni Paolo II raccontò di Wojtyla: “So che, nei primi anni del suo pontificato, ad alcuni vescovi che si lamentavano della Democrazia cristiana, chiese se avessero alternative da proporre. Poiché non ne avevano, il discorso cadde”.
E per quanto riguarda il rapporto di Giovanni Paolo II con la politica italiana, va ricordata l’emozione con la quale Andreotti partecipò alla visita di papa Wojtyla a Montecitorio nel 2002: “Sono giorni in cui la gioia di vivere è più intensa – scrisse l’anziano senatore a vita che aveva fatto parte del Parlamento fin dalla Costituente -. Difficilmente se ne avrà un altro come il 14 novembre 2002”.