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Lo Stato? A supporto delle imprese (non in sostituzione). Scrive Davide Faraone

Di Davide Faraone

Quando chiudi tutto, e qualcuno in Ungheria ha esagerato chiudendo perfino la democrazia e confinando in casa anche il Parlamento, non resta che lo Stato.
John Fitzgerald Kennedy diceva che la parola crisi in cinese è composta da due caratteri, uno rappresenta il pericolo e l’altro l’opportunità. Lo stesso vale per la parola “Stato”. Lo Stato può gestire l’emergenza e pianificare la ripartenza assumendo scelte che comportano rischi ma restituiscono valore alla parola “Politica” o può accomodarsi in poltrona trovando conforto nella paura e abituandosi piacevolmente alle nuove abitudini figlie della pandemia. Sono due strade diverse.

Lo Stato può sostituirsi alle imprese e immaginare una nuova Iri, può statalizzare le compagnie aeree, può entrare nel capitale delle aziende, può perfino sostituirsi ai lavoratori mettendoli in lockdown perenne e mantenendoli tutti a casa con un reddito assicurato universalmente per il semplice fatto di essere nati. Lo Stato può farlo, se vuole, ma la momentanea e giusta privazione della libertà dovuta all’emergenza sanitaria rischierebbe di riconsegnarci un Paese senza più lavoro per nessuno. E a quel punto, citando il titolo di una mini serie andata in onda in questi ultimi giorni, mancheranno sia il “pane” che la “libertà”.

Credo, invece, che dovremo provare a uscire da questa crisi proprio come accade dopo un terremoto o una guerra, senza fare ricorso all’assistenzialismo di massa, ma restituendo sicurezza sociale e fiducia attraverso il lavoro. Siamo rimasti responsabilmente a casa il tempo necessario a limitare il contagio, ma adesso, seguendo regole chiare, è arrivato il momento di riprenderci lo spazio dei nostri diritti, delle nostre ambizioni, dei nostri legittimi desideri e progetti.

Lo Stato deve sostenere con ogni mezzo l’economia, le imprese e le famiglie e poi tornare ad accomodarsi al suo posto, altrimenti riaprirà una sola fabbrica: quella della miseria.

Dallo Stato non mi aspetto solo che si faccia garante con le banche dei prestiti alle imprese, come avvenuto parzialmente con il decreto liquidità (sebbene noi avremmo preferito che fossero garantiti al 100% per tutti gli importi), mi aspetto risorse a fondo perduto e senza condizioni da pianificazione sovietica per le aziende così come l’Italia chiede risorse all’Unione europea.

Mi aspetto che liberi il Paese da quel mostro chiamato “burocrazia” e magari inizi pure a pagare i suoi debiti con i cittadini, come i 50 miliardi che deve agli imprenditori per lavori già effettuati, merce già consegnata, fatture già emesse. Non sarebbero in questo caso né prestiti né aiuti, ma regolare pagamento fin qui ritardato fino a 600 giorni in alcuni casi.

Uno Stato serio, poi, progetta per tempo la ripartenza, non si fa cogliere impreparato. Le scuole sono chiuse: diventino subito cantieri per renderle più sicure e più belle; le strade sono deserte: cantieri e lavori per riasfaltarle e rifare i marciapiedi; il nostro patrimonio artistico e monumentale, le nostre chiese restano tristemente chiusi: pensiamo ad un grande piano di restauri.

Parliamo di 120 miliardi di opere ferme: cosa aspettiamo a far partire i cantieri? Dobbiamo aspettare che crolli qualche altro ponte per renderci conto dell’urgenza di dover mettere mano alle infrastrutture? Intervenire in questa fase di crisi diventa ancora più urgente. Ripartire subito, azzerando la burocrazia e garantendo la sicurezza e le protezioni per tutti i lavoratori.

D’altronde c’è anche chi in questi due mesi non si è mai fermato, il cantiere per il ponte di Genova, ad esempio. Pazzi e incoscienti? No, hanno semplicemente adottato regole di buon senso e misure di sicurezza. Perché questo modello non si può applicare su vasta scala? Perché non può valere per tutti i settori economici, dal commercio al turismo all’agricoltura?

Ovviamente il tema della ripartenza è strettamente connesso a quello delle forniture di Dpi e qui entriamo in un argomento scottante. Il Commissario Arcuri ha affermato che entro giugno l’Italia sarà autosufficiente nella produzione di mascherine, eppure molte imprese che potrebbero ripartire subito non potranno ancora farlo perché non riescono a reperirle da nessuna parte.

Probabilmente l’unica nota positiva che questa triste emergenza ci consegna è quella di aver reso “No vox” i “No vax”, di avere restituito la credibilità che spetta a scienziati e medici, proprio coloro i quali oggi ci chiedono di ricominciare a pensare al futuro. Perché organizzare la ripresa spetta alla politica e non alla scienza.
Abdicare al proprio compito in favore degli esperti di turno è un errore che la politica ha spesso commesso: ieri con i magistrati, poi con gli economisti e oggi con i medici. Non si fa un favore nemmeno a loro se li si carica di responsabilità decisionali che non gli competono.

Infine, l’Italia senza apertura ai mercati internazionali non esiste; non esiste dal Rinascimento, non esiste addirittura dall’Impero Romano e il Governo Conte due è nato su un’idea di totale discontinuità con l’impostazione del precedente che auspicava porti chiusi, frontiere e muri.
In queste settimane si è diffuso uno storytelling ingannevole, quello dell’Europa matrigna che vuole male all’Italia. Chiariamo subito: non è in atto uno scontro tra Paesi in Europa, come certi sovranisti vorrebbero lasciarci intendere, semmai esiste uno scontro tra sovranisti che rischia di scaricarsi sulla pelle dei cittadini europei.

Difendere l’Europa oggi significa difendere l’Italia, perché senza l’Europa il nostro Paese è destinato a soccombere alla crisi post Coronavirus. Bisogna affrettarsi a superare questa fuorviante narrazione impostasi nelle ultime settimane che riduce la tensione in atto in Europa ad una riedizione della semifinale dei Mondiali di calcio di Messico 70, per ricondurla su un terreno più razionale e soprattutto meno isterico, quello cioè che dovrebbe essere lo spazio della visione politica.

L’Europa ha fatto tanto, ha messo a disposizione strumenti importanti, ora deve fare di più e in fretta. Al punto in cui siamo la frase “nessuno si salva da solo” non è uno slogan buono per farci un hashtag su Twitter o uno striscione da appendere al balcone, ma la più ineludibile e ostinata delle verità; in tanti lo hanno compreso a prescindere dal passaporto che possono esibire. Non è intellettualmente onesto oggi parlare di tedeschi contro italiani, italiani contro olandesi, olandesi contro spagnoli, per un motivo semplicissimo: “simul stabunt simul cadent”, insieme staranno o insieme cadranno.

Il cuore della sfida sta dunque nella lettura politica di questa immane tragedia, nella necessità di una risposta politica solidale che rilanci l’unica entità sovranazionale dimostratosi finora in grado di assicurare pace e prosperità all’Europa e di una risposta economica inedita che rimuova le antistoriche incrostazioni di egoismo e metta al riparo ogni singolo cittadino europeo dalle conseguenze della crisi. La grande pandemia del 2020 sarà il titolo di un capitolo di storia che le future generazioni si troveranno per forza di cose a dover studiare, cosa sarà scritto su quel capitolo dipenderà dalle azioni che sapremo mettere in campo adesso.

Se oggi prevarranno gli egoismi, domani quel capitolo parlerà dei giorni in cui è morta l’utopia europea. Se invece adesso dimostreremo lungimiranza, visione e unità, il titolo del capitolo successivo sarà il nuovo rinascimento europeo. A ciascuno di noi la scelta.

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