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Metodi prima che obiettivi. Come affrontare l’emergenza

Di Alessandro Corbino

Allentata la morsa del blocco totale, non usciamo però da confusione ed inefficienza. È stato un grave errore non comprendere che del problema economico ci si sarebbe dovuti occupare immediatamente. L’emergenza sanitaria non era che l’aspetto avanzato della questione. Comprendo le difficoltà. Il virus non è mai stato studiato prima (e non se ne possono “prevedere” perciò le dinamiche, se non per “ipotesi”). E le conseguenze di ordine materiale (sconvolgimento degli assetti sui quali una miriade di piccoli soggetti fondavano le proprie attese di reddito) e psicologico (la propensione a tornare alle antiche abitudini) non sono meno imperscrutabili. Ma questo non cambia la sostanza delle cose.

Occorre riorientare l’azione.

Il problema più grave ed urgente è costituito dagli assetti attuali dei nostri processi decisionali. Ne abbiamo constatato i viluppi di procedure. La loro estrema complessità – già insopportabile in tempi ordinari – si è subito rivelata “insostenibile” nel momento nel quale la “tempestività” del decidere ha preso il sopravvento su tutto. E abbiamo dovuto accettare la sospensione delle nostre libertà. Da parte di un governo reso esitante dalla sua strutturale debolezza. Ma anche del tutto inadeguato (è un fatto però di cultura che va oltre “questo” governo) a sostenere un’azione che deve misurarsi con processi decisionali che reclamano il concorso di organismi “sovraordinati” e “subordinati” (in un intreccio vario, comunitario/nazionale, nazionale/regionale, etc.) e che non possono divenire perciò efficaci se restano legati (nei fatti) ad una logica “lineare” (discendente) e non “complessa”. Esigerebbero “coordinamento”. E dunque una mobile (e non uniforme) relazione gerarchica (misurata sulle circostanze).

Scontata la indifferibile necessità di provvedimenti tampone (veri comunque e non solo annunciati), si rende altrettanto indifferibile provvedere ad una incisiva riforma del nostro sistema decisionale. Non si può più (virus o non virus) non considerare come prioritaria la necessità della “tempestività” (semplificazione dei processi) in un contesto (che era già quello maturato prima della pandemia) di elevata “imprevedibilità” degli effetti dell’azione. È senza senso pensare (e tanto più in una situazione di emergenza) che le risorse possano essere “misurate” (nella necessità) e “indirizzate” (nella direzione) guardando a ciò che sappiamo: un “passato” che non potrà tornare. Accade sempre. Nel massimo, quando quello conosciuto è stato devastato nell’intimo.

Ma c’è un’ulteriore consapevolezza, la più difficile da fare digerire in un tempo – ormai pluridecennale – di “governi” senza “respiro” storico. Nel quale si vive sempre più di competenze “certificate” e non “palesate” (penso all’orribile spettacolo di una “scienza” dell’improvvisazione e dell’autorità quale quello andato in scena).

Dovremo (dovremmo) tornare al più presto ad una considerazione banale. Non v’è dubbio che nessuna strategia per affrontare la “ripartenza” (non purtroppo la “ricostruzione”) possa essere adottata senza ingenti risorse monetarie e una importante “guida pubblica” che accompagni la non meno importante (anzi: molto più importante) “azione individuale”.

Orbene. Per le prime (risorse monetarie) sarà bene smetterla di dire cose insensate (evocative solo di emozioni, e distorsive perciò degli orientamenti che dovranno formarsi). E sarà bene perciò parlare un linguaggio di praticabilità. Per le seconde (“governo” delle cose) sarà bene smetterla di immaginare che esso possa essere “spontaneo”. Nella “giungla” non vi è “governo”, ma “forza”. Sarà bene parlare il linguaggio di chi ha l’abitudine a guardare le cose con l’orizzonte della storia.

Un’ultima considerazione.

Non è pensabile (e questo non lo nega infatti nessuno) sottrarsi ad un massiccio ricorso all’indebitamento. Si trascura però che a dettarne la “dimensione” non sono solo le esigenze, ma anche la “possibilità” dello strumento.

La condizionano molti fattori, nessuno dei quali può essere escluso dall’orizzonte (nel pubblico come nel privato). Si richiedono strategie. Dunque: disegni (al plurale: abiti di sartoria, non abiti preconfezionati) flessibili (riguardano percorsi di lungo periodo); normative che li assecondino (e non ostacolino); condizioni materiali (distribuzione dei rischi su una platea il più possibile estesa, che ne attenui perciò nel massimo l’incidenza sui singoli).

Ma ne costituisce presupposto di praticabilità un elemento troppo trascurato da tutti: la “fiducia” dei creditori. La quale non si può ottenere per “decreto”. Dipende dalla “reputazione”. Per un Paese si lega alle “pratiche” (ai “modi” di elaborare ed attuare le decisioni) dei suoi governi (pur variabili nei loro macro-orientamenti).

L’emergenza si affronta con un deciso cambiamento di passo. È necessario un concorso di “visione” e di “pratiche”. La prima (per essere efficace) deve essere aperta (di principio) agli adattamenti di percorso (accompagnata quindi da “normative” formulate per “orientare” e non come “binari” da percorrere). Le seconde devono essere costituite da processi decisionali improntati essi stessi alla “flessibilità”. Occorre abbandonare la cultura di “criminalizzazione” dell’errore. Bisogna tornare a comprendere che si deve distinguere una “responsabilità” da “inopportunità” da una da “illiceità”.

La ripresa dipende dalla “politica”, non da astratte e decontestualizzate regole “economiche”. Da una “praticabilità” dei percorsi nelle condizioni storiche date. Qualcuno capirà mai che qualunque risultato ci proponiamo ne potremo constatare (e verificare) l’efficacia solo fra alcuni decenni? E che occorre dunque restituire al “governo” visione “storica” e “pragmatica”? Guardare insomma – insieme – al “futuro” e al “presente”, orientati dalle “conoscenze” (dunque dal “passato”) e “sostenuti” da un consenso “politico” (reale) elevato.

Le decisioni e la loro gestione dovranno rivelarsi (a chi le osserva) attente alle “attese” non solo degli attori visibili (i “protagonisti” che “guidano” l’azione collettiva) ma anche di quelli “nascosti” (i milioni che danno movimento alla “macchina” e ne rendono perseguibili gli obbiettivi, soprattutto i più difficili e lontani). Il “benessere” è una condizione “presente”. E tutti devono poterla – momento per momento – misurare.

Il che postula che diventi possibile un costante confronto della condizione attuale con punti “lontani”. Quelli di partenza (che giustificano le rinunce) e quelli di arrivo (che spiegano la ragione di quelle rinunce). Come è da irresponsabili non curarsi delle generazioni a venire (avidi di presente, abbiamo devastato l’ambiente), è da visionari (arroganti) non comprendere che nessuno può sopportare (se non per un brevissimo tempo) “solo” disagi e delusioni (tasse, oppressione pubblica e dissipazione delle risorse).

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