Skip to main content

Dal nucleare al virus, come leggere la geopolitica oggi. L’analisi di Santangelo

Di Salvatore Santangelo

Nel 1941, a Copenaghen, in una Danimarca occupata dai nazisti, il fisico tedesco Werner Karl Heisenberg fa visita al suo vecchio maestro Niels Bohr.

Entrambi sono attivamente coinvolti, ma su fronti opposti, nella ricerca scientifica che mira a realizzare la bomba atomica. I due scienziati hanno una conversazione nel giardino della casa di Bohr, l’oggetto di questo scambio di idee resta ancora oggi un mistero. La maggior parte degli storici ritiene che Heisenberg – a capo del programma nucleare militare tedesco – volesse capire a che punto fossero gli alleati nello sviluppo dell’arma suprema, perché riteneva che Bohr ne avesse contezza (ed era effettivamente così e infatti, dopo essere riuscito a fuggire dal suo Paese, dà un contributo determinante alla loro causa). Al di là delle congetture, i due personaggi (diventati anche i protagonisti di una fortunata pièce teatrale di Michael Frayn) rappresentano due visioni contrastanti della scienza.

Heisenberg, nonostante recenti tentativi di riabilitazione, se non un aperto sostenitore del Regime, fu certamente un ultranazionalista (in gioventù aveva anche aderito ai Wandervögel e ai Corpi franchi), al punto di arrivare ad affermare che «La democrazia non ha sufficienti energie per guidare l’Europa. Vi sono perciò solo due possibilità: la Germania e la Russia. E allora un’Europa sotto la guida tedesca mi sembra il male minore».

Forse non era sulle posizioni di altri suoi compatrioti come Johannes Stark e Philipp Lenard (entrambi come lui insigniti con il Nobel per la fisica) che parlavano apertamente di «una fisica ariana», ma certamente credeva in una «scienza al servizio della Patria». Fino al 1941, nella corsa atomica, i tedeschi sono in netto vantaggio: la fissione nucleare è nata a Berlino nel 1938, nel laboratorio di Otto Hahn, e già dal 1939 la Germania era l’unica nazione con un progetto militare per la fissione nucleare; la conquista della Cecoslovacchia ha assicurato ai tedeschi il possesso della ricca miniera di uranio di Joachimsthal; l’occupazione della Norvegia consente loro di disporre dell’unico impianto europeo per la produzione di acqua pesante, a Vemork.

E proprio nel settembre del ’41, nei sotterranei dell’Istituto di fisica di Lipsia, una “macchina a uranio” comincia a “sparare” neutroni in eccesso. Gli alleati sono in ritardo nella gara scientifica e tecnologica: occorre attendere il dicembre del ’42, perché Enrico Fermi riesca a innescare una reazione nucleare controllata nella sua “pila” costruita nei sotterranei dello stadio di Chicago, e così prenda il via il progetto Manhattan, con le migliori menti della scienza europea e americana portate a Los Alamos per preparare la bomba. Ma sarà proprio questo trust di cervelli (molti dei quali ebrei sfuggiti alla persecuzione razziale) che taglierà poi per primo il traguardo, a testimonianza del fatto che, nel confronto tra le due visioni, sarà la «scienza pura» a trionfare, come anche il sistema più aperto, attrattivo e tollerante.

Ho voluto inserire il racconto di questo cruciale evento storico perché, per certi versi, oggi si sta riproponendo, attorno alla ricerca del vaccino antiCovid, un analogo confronto, che polarizza e amplifica quella che sarà la vera competizione del futuro, che ruota appunto attorno alle biotecnologie, ai calcolatori quantistici, all’intelligenza artificiale, alle reti di comunicazione sempre più performanti e sulla capacità di collezionare e analizzare dosi sempre più massicce di dati.

Su questo crinale si consuma oggi lo scontro tra società aperte e chiuse. E la scoperta del vaccino, anche in termini di prestigio, segnerà un punto a favore dell’uno o dell’altro campo in questa sfida geopandemica, dove, per certi versi, il nostro Paese, diventa un vero e proprio laboratorio da cui diversi attori, in primis russi e cinesi, sembrano interessati a “estrarre” dati sensibili, o quanto meno a studiare sul campo per le proprie finalità, procedure e protocolli.

Su questa dinamica se ne impone un’altra: nell’era della globalizzazione la conflittualità non si manifesta solo nella vecchia dimensione spaziale/istituzionale, ma anche attraverso una verticalizzazione delle contrapposizioni all’interno di ogni singola realtà.

In estrema sintesi, oggi siamo di fronte alla riedizione del vecchio concetto di Guerra civile europea ma riproposto su scala globale: una guerra civile mondiale, dove si scontrano tanti attori a cavallo del fronte globalista e anti-globalista.

Questa guerra non vede due eserciti nettamente schierati da una parte e dall’altra, ma anche parti dello stesso schieramento che si spalmano trasversalmente. Gli Usa, in questo scenario ne sono certamente l’esemplificazione: da una parte Trump con le sue scelte politiche, in particolare i dazi, che rappresentano il tentativo di “chiudere” il mondo o quantomeno ridisegnarlo per comparti economicamente e culturalmente omogenei; dall’altro lato, sempre nei confini dello stesso Stato, i “signori del silicio”, che sono tutti schierati sul fronte globalista, con il politically correct che è la loro matrice culturale prevalente. Ed essi sono accanto alla Cina e alla Germania.

Proprio Berlino rappresenta una straordinaria storia di successo nel mondo globalizzato: un Paese che conta poco più di 80milioni di abitanti, che non solo è riuscito a egemonizzare la Ue ma ha anche il più grande surplus commerciale al mondo, avendo totalmente trasformato il suo modello economico, orientandolo all’esportazione e quindi, strenuamente difende questo tipo di approccio.

La Germania cerca di non perturbare gli attuali equilibri e ha fatto della stabilità il suo mantra. Anche la Cina – fino a ora – non ha sfidato frontalmente il sistema internazionale, accontentandosi di gestire il presunto declino dell’Occidente (confidando anche nell’approccio di una parte delle sue élite che invece di contrastare questo declino sembrano accontentarsi di prosperare su di esso).

Poi ci sono l’Italia e la Francia, che oscillano tra un interesse nazionale che le porta (per ora) a mantenere aperti i mercati per la loro vocazione all’export e al contempo subiscono l’insofferenza dei propri ceti medi che invece sono stati fortemente spiazzati dalla globalizzazione e quindi si orientano elettoralmente verso formazioni populiste e sovraniste che però presentano, soprattutto in Italia, più di un’ambiguità nella propria collocazione internazionale. Un discorso a parte meritano due altri attori: la Russia di Putin e Israele.

L’antioccidentalismo di Putin è in gran parte esito di una reazione, poiché il suo obiettivo è sempre stato quello di trovare un posto dignitoso alla Russia nel contesto internazionale, superare la visione unipolare e ridare credibilità e forza al suo Paese dopo la tragedia del 1991. Putin ha dimostrato grande intelligenza nel riuscire ad affrontare le sfide che aveva di fronte, cercando allo stesso tempo di avvicinare la Russia all’Occidente.

In questa parabola evidenzierei però due momenti, nel 2003 con la costituzione di un fronte comune contro l’avventura neoconservatrice, che vede uniti Francia, Germania, la diplomazia vaticana e appunto la Russia. Il secondo si avrà nel 2014, con l’apertura della crisi in Ucraina che sappiamo essere uno scacchiere imprescindibile per Mosca. Si tratta di quell’area che i russi considerano “estero prossimo” e che di fatto è la matrice genetica e culturale dell’Impero zarista che, a partire dall’anno mille, avrà il suo primo embrione proprio attorno agli insediamenti di Kiev e Smolensk.

In particolare, in questo frangente, l’Occidente invece di riconoscere l’impegno di Putin nel tentativo di chiudere partite drammatiche come la guerra in Cecenia, la lotta al terrorismo islamico e le spinte centrifughe che mettevano a repentaglio la stessa tenuta dell’architettura statuale russa, ha sostenuto il colpo di Stato che ha defenestrato un leader eletto come Yanukovych.

Queste brevi considerazioni servono proprio per mettere in luce le contraddizioni che un leader come Putin ha dentro di sé: non è un reazionario, non lo è per formazione, non lo è per storia, non lo è neanche per orizzonte mentale e rammentiamo che nel discorso dove ha messo in discussione il modello della democrazia liberale (che di fatto è entrato in crisi), non risponde abbracciando le tesi di Dugin e degli eurasisti ma quelle di coloro che da questi ultimi sono considerati i nemici giurati della Russia tellurica e asiatica, gli Zar illuministi e illuminati, che hanno voluto spingere sull’acceleratore della modernizzazione del Paese. Ma nonostante questo oggi si trova schiacciato su posizioni esattamente antitetiche.

Tra l’altro, le azioni che mette in campo Putin, sono azioni di retroguardia, come in Siria o in Crimea. Ci colpisce la spettacolarità di queste re-azioni, come occupare la Crimea o puntellare il regime di Assad, ma si tratta di tattiche che in pochissimo tempo esauriscono le risorse a disposizione di un corpo – come quello russo – già profondamente stremato. Attenzione a non fare un errore di prospettiva e di profondità: la Russia è una potenza declinante e come tale, fa di tutto per arrestare questo declino. E questo lo ha compreso perfettamente Trump che non a caso ha teso una mano a Putin (prontamente stretta) rilanciando lo spirito dell’Elba, in ricordo dello storico incontro tra le truppe americane e sovietiche sulle sponde del fiume tedesco nel 1945, invocandolo, «come esempio di come i loro Paesi possono cooperare».

La valenza di questo gesto, qualora non venga boicottato ancora una volta dal Deep State statunitense ancora intrappolato in posture da Guerra Fredda, potrebbe avere la portata della diplomazia del ping pong inaugurata da Nixon e Kissinger, determinante nello spaccare il fronte comunista, allontanando Pechino da Mosca e segnando in questo modo l’esito dell’epico confronto. Allo stesso modo, staccare oggi Mosca da Pechino, favorirebbe l’isolamento della Cina, amplificato dall’offensiva comunicativa sulle celate responsabilità rispetto all’esplosione dell’attuale pandemia.

I primi esiti di queste mosse si stanno vedendo nel progressivo allontanamento di Putin da Assad (presa di distanza per ora filtrata grazie a una serie di editoriali della stampa russa che stanno mettendo sotto accusa la leadership di Damasco, impensabili senza il nulla osta del Cremlino) e che lasciano presagire la possibilità di un inedito fronte tra Mosca, Washington e Tel Aviv, baricentrato proprio su Israele. E così arriviamo a parlare della Patria degli ebrei che, se è certamente stato uno dei centri propulsivi dell’elaborazione politico-culturale del sovranismo (basti pensare al determinante contributo intellettuale di Yoram Hazony), allo stesso tempo rappresenta un peculiare modo di stare nella globalizzazione senza smarrire la propria identità.

Allora, le paradossali parole dello storico Yuval Noah Harari che – di fronte alla sfida globale evocata dalla Pandemia (e che vede Israele in prima linea proprio sul versante della ricerca) – arriva a invocare «Un nazionalismo migliore», possono essere lette come una traccia: «Molti mi fraintendono. Se incoraggio la solidarietà globale non sto attaccando i nazionalismi. Cos’è il nazionalismo? Amare i tuoi compatrioti. Ma per amarli e difenderli oggi devi cooperare: devi condividere i dati del virus, far collaborare i ricercatori, devi mutualizzare i rischi economici e per evitare ondate di ritorno devi aiutare Paesi restati indietro: se vanno al collasso sono guai per tutti. La collaborazione globale è buon nazionalismo, perché è fatta nell’interesse della tua nazione e dei tuoi compatrioti».

La traccia di una sintesi inedita, di un nuovo approccio che può sanare le fratture che abbiamo provato a raccontare.

 

×

Iscriviti alla newsletter