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Coronavirus, in Lombardia ha prevalso l’impreparazione. Parla Carlo Cerami

Di Enrico Salemi

“In Lombardia c’è stata molta improvvisazione nella gestione della pandemia” spiega a Formiche.net l’avvocato Carlo Cerami, consigliere di amministrazione di Poste e uno degli intellettuali più riconosciuti della realtà milanese. “L’emergenza sanitaria non è ancora finita, Milano ce la farà se riuscirà a recuperare anche i più deboli” annota “e a bocce ferme è necessario rivedere il bastone di comando tra Stato e Regioni”.

Come giudica l’uscita del commissario Domenico Arcuri che ha detto che in Lombardia i morti civili per covid19 sono stati 5 volte di più rispetto ai caduti della Seconda guerra mondiale?

“Arcuri ha fatto un riferimento storico per i deceduti a causa dei bombardamenti, probabilmente voleva sottolineare il fatto che non siamo ancora usciti dall’emergenza, che quindi c’è più di una ragione per rimanere ancora coperti. Credo che sulla questione della sanità e dei metodi utilizzati esista infatti una oggettiva questione di impreparazione rispetto all’evento capitato”.

Non ha funzionato il modello lombardo?

Questo è centrato principalmente su ospedali super specializzati, la grande medicina, i laboratori di ricerca: una sanità di eccellenza che tale rimane. Ma è evidente che un fenomeno come quello della pandemia implica separazione, distanza, protezione, tutti fattori che implicano distribuzione di servizi territoriali e che si sposano male con la concentrazione dei pazienti che invece è una caratteristica degli ospedali policlinici.

Però, ad esempio, la differenza tra la gestione è nella percentuale di mortalità: in Lombardia è al 14% mentre in Veneto è al 3,3%…

Che ci sia stato un problema in Lombardia io non lo nego affatto. È evidente che la situazione è sfuggita di mano mentre altre Regioni sono riuscite a contrastare la diffusione tra le persone, nella nostra Regione si è faticato molto di più.

Perché?

La prima ragione è legata ai luoghi del contagio: le case, gli ospedali, gli ambienti del lavoro. Ed è evidente che non ci sono state direttive e sistemi di sicurezza sufficienti a garantire che il contagio non avvenisse. Quello che mi sembra chiaro è proprio l’impreparazione, questo è un dato di fatto. Poi, in aggiunta a questo, si sono determinati anche dei fenomeni come la trasmissione del contagio all’interno di strutture dove erano presenti molti soggetti deboli, quello attraverso i familiari e il personale medico e gli operatori costretti alla contiguità. Tutto questo disegna un fenomeno molto specifico della Lombardia che va certamente censurato, è un dato oggettivo basta guardare i numeri.

Condivide chi sostiene che in Lombardia si sia agito più d’istinto: si sono trasferiti i pazienti nelle strutture ospedaliere, senza che il personale fosse sufficientemente protetto, mentre in Veneto è stato fatto un lavoro dalle Asl e dai medici di base, che sono intervenuti sui casi segnalati…

Sì questo problema si è accentuato perché è stata indebolita la rete territoriale e questa sensazione di improvvisazione oggettivamente ha prodotto dei comportamenti contraddittori così come sono contraddittori i messaggi rivolti al mondo economico: si è passati dal dire Milano non si ferma al suo opposto, fino ad evitare di mettere anche solo il naso fuori di casa. Non sembra esserci una consapevolezza condivisa né della gravità né di come superarla. E a mio avviso la Regione Lombardia sta dimostrando numerosi limiti, molto più gravi di quanto ci si attendesse.

Proprio sulla fase2 si è passati da “prima la sicurezza” a riapriamo al più presto le attività produttive…

Sicuramente non più tardi di una settimana fa avevamo la Regione più severa e adesso sembrerebbe che questo messaggio sia sfumato. C’è uno stato emotivo prevalente. E poi non riesco a capire questa ansia di dichiarare in continuazione: quello della pandemia è un fenomeno su cui varrebbe la pena riflettere e a approfondire.

In che senso?

Penso al contrario che la consapevolezza delle persone si stia formando su come evitare il contagio. C’è molta attenzione da parte dei cittadini nel rispettare le regole del distanziamento. Questo mi lascia immaginare che molte attività produttive che non comportano una stretta contiguità di persone si possano davvero riaprire. Il tema semmai è come si raggiungono i luoghi di lavoro e come mettere in sicurezza il trasporto pubblico. Del resto Milano è una città dove ogni giorno si concentrano quasi un milione di lavoratori che provengono da fuori, i city users.

Lei punta sulla nuova “maturità” delle persone?

La si percepisce e quindi dico che più che fare proclami, bisognerebbe essere più responsabili e considerare il fatto che le persone si siano adattate a questa nuova vita con serietà, così come sono consapevoli che, in questo momento, non si è raggiunto ancora quel livello di sicurezza necessario per ritornare alla vita precedente.

Come giudica invece l’intervento del governatore De Luca che ha minacciato di chiudere la Campania in caso di aperture frettolose di Lombardia e Veneto?

I governatorati hanno mostrato tutti i loro limiti, le politiche della salute dovrebbero essere rese più omogenee e il Sistema Sanitario nazionale dovrebbe pretendere che tutte le Regioni si uniformino alle direttive centrali. Sul regionalismo dovremmo fare un’approfondita riflessione.

Tutto nacque da una riforma un po’ frettolosa nel 2001…

Fu una modifica voluta all’epoca dal centrosinistra per combattere l’ascesa della Lega e, secondo me, si fonda su un assunto sbagliato. In alcune materie, tra cui la Sanità, la competenza primaria è quella regionale, salvo gli elementi di coordinamento che spettano allo Stato. Precedentemente c’era la cosiddetta legislazione concorrente dove i principi generali erano quelli dello Stato e alle Regioni restavano l’organizzazione di alcune attività. Aver rovesciato questo principio ha determinato un fenomeno a cascata e i sistemi si sono troppo diversificati.

Il famoso federalismo invocato un po’ da tutti…

Non credo che il territorio italiano sia uguale e debba essere trattato allo stesso modo, quindi un po’ di diversificazione è connaturata proprio alla sua struttura sociale ed economica. Quello che però è evidente è che tutto questo non può tradursi in una disparità di trattamento nell’accesso ai servizi essenziali, che deve valere per tutti. Penso che si sia persa l’occasione di riformare la Costituzione non tanto sul tema del bicameralismo ma sulla necessità di affidare il bastone di comando allo Stato centrale, un caos che sta avvenendo anche in questa fase con la Protezione civile.

Ma a bocce ferme, finita la fase emergenziale, bisognerà rimettere mano alla riforma del Titolo V?

Ci vuole una riforma complessiva dell’organizzazione e del modi di lavorare della pubblica amministrazione. Abbiamo una molteplicità di livelli amministrativi che è devastante per l’efficienza e la velocità delle decisioni. Non è quindi un problema solo legislativo ma anche organizzativo e l’esorbitante numero di regole e leggi, spesso formulate in modo ambiguo, che la sovrastano. Serve davvero un ripensamento complessivo.

Intanto Milano ce la farà a ripartire?

A Milano c’è una comunità economica molto vivace, ambiziosa, dedita all’innovazione. Questa si rimetterà in moto molto presto e, sono certo, reagirà con grande orgoglio. C’è poi una Milano diversa, quella meno fortunata, più periferica che è stata abbandonata a se stessa e che credo stia pagando il prezzo più alto, anche in termini di vite umane. Bisognerà prendersi cura di questa parte di popolazione, solo così Milano ritornerà ad essere protagonista della ripartenza economica e sociale del Paese.

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