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La sentenza strabica dell’etica: i figli galli non consolano le figlie cornute

Prendete una mamma che ha un figlio masculo e una figlia femmina. Entrambi i figli sono in età da matrimonio e infatti maritati sono da qualche anno.
Il figlio maschio, dicono le malelingue, quando dice che va in trasferta non ci va veramente. E al letto dell’albergo, anonimo e vuoto, preferisce qualche altro letto caldo e accogliente. La voce pettegola peggio di qualsiasi intercettazione, a mezzo amica un po’ pettegola dai capelli tinti di rosso, era arrivata all’orecchio della madre. Orecchio che aveva fatto da finestrella del confessore ai lamenti e singhiozzi della figlia femmina che del marito lamentava troppi sms, insospettita da qualcuno di questi di cui aveva intercettato il contenuto.

Ora, pare che la madre fu sentita, mentre si trovava dalla parrucchiera, e dunque nel più importante organo d’informazione del paese, proferire queste, a dir poco impronunciabili, parole: “Io di mio figlio mi vanto perché è bello, e tiene forza. Lui è fatto per le femmine, una, due, duecento”. L’amica dai capelli rossi, quella pettegola che si stava facendo la tinta, da sotto il casco termico che dava alle parole l’enfasi dell’oracolo, piglia e la fa: “Concetta frena la lingua e la sicumera. Che certe cose, poi, contro ti vanno”. “Quale freno e freno, se alcune pettegole straparlano delle doti di mio figlio o è perché le hanno provate troppo o perché le hanno provate troppo poco”. E l’amica ancora: “Concetta, Concetta e di tua figlia allora, non ne vogliamo parlare”. E lei Concetta, cambiando il rossore della sicumera in pallore di mortificazione:“Non mi ci fare pensare. Mia figlia nelle mani di un birbante è finita. Un porco che la cerniera dei pantaloni non sa manco come si chiude”.



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