Pubblichiamo un intervento della conferenza internazionale “Fenomeno Turchia. Turchia 2020. L’economia, la società, la politica estera: gli sviluppi possibili” organizzata dal Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (Cipmo) il 15 maggio del 2013 a Milano.
Prima di parlare della Turchia vorrei volgere lo sguardo all’importanza che riveste la sponda Sud del Mediterraneo nel suo insieme: i Paesi che vi rientrano sono Marocco, Algeria, Tunisia, Libia Egitto, Giordania, Israele, Territori Palestinesi, Libano, Siria e Turchia. Alcuni dati della Banca Mondiale indicano che il Mediterraneo nella sua accezione allargata potrà costituire in futuro, così come è stato in passato, un polo di sviluppo di grande rilievo rispetto alle altre aree del globo.
Questa area di 284 milioni di abitanti vanta un PIL superiore per esempio a quello dell’India che ha 1,1 miliardi di abitanti e un PIL di 1310 miliardi di dollari. La Russia con 140 milioni di abitanti ha un PIL di 1231 miliardi di dollari.
Certo la distribuzione di reddito e ricchezza è assai diversificata. Israele vanta un reddito medio pro capite che sfiora i 28 mila dollari mentre Marocco, Siria ed Egitto accusano pesanti sacche di povertà. Altri Paesi, come Algeria e Libia, ricchi di gas e petrolio, pur essendo in classi di reddito più alte, presentano forti squilibri interni e accentuate diseguaglianze a seconda delle zone.
Quello della sponda Sud è un mercato di 284 milioni, il 4,2% della popolazione mondiale, un bacino destinato da aumentare per le dinamiche demografiche: le stime parlano di altri 100 milioni di cittadini nei prossimi vent’anni, destinato a superare quello del Nord America.
È un mercato giovane: l’età media in Europa è di 40 anni in Nord Africa di 24. Il 30% della popolazione tra Medio Oriente e Nord Africa ha meno di 14 anni. Il tasso di disoccupazione giovanile è il più alto di quello riscontrato in qualsiasi altra parte del mondo: il tasso di partecipazione dei giovani nordafricani al mondo del lavoro è del 38% contro una media mondiale del 50%. Il tasso di disoccupazione giovanile è del 27%, almeno.
Secondo le stime dell’International Labour Organization nei prossimi anni i lavoratori in Europa verranno per il 40% dalle coste meridionali e orientali del Mediterraneo.
Insomma il Mediterraneo è un mare di problemi ma anche di opportunità. Turchia modello per gli arabi? Dei Paesi dell’aerea mediterranea la Turchia è stato quello che ha avuto lo sviluppo più evidente, favorito dalla stabilità politica del governo dell’AKP di Erdoğan e caratterizzato da un forte pragmatismo economico e sociale esemplificato dallo slogan: Zero Problems Maximum Trade.
L’ascesa delle Tigri dell’Anatolia
Quando ci si interroga se la Turchia può essere un modello per il mondo musulmano, arabo e mediterraneo bisogna allontanarsi dal volto cosmopolita di Istanbul per dirigersi verso il cuore dell’altopiano anatolico in una Turchia tradizionale, religiosa, imbevuta di valori patriarcali. A Kayseri la metà delle donne circola con il velo, nei ristoranti di preferenza non si servono alcolici e il Ramadan, il mese del digiuno, viene osservato con una certa rigidità.
È qui nella Turchia profonda che ha avuto inizio il miracolo delle Tigri Anatoliche, della nuova classe di businessmen turchi, della piccola e media borghesia musulmana che vota il partito AKP di Erdoğan e sostiene il presidente Abdullah Gül, nato proprio a Kayseri dove il padre era dipendente della prima industria aereonautica nazionale fondata da Atatürk.
Qui è nata la “rivoluzione silenziosa” di cui spesso parla Gül, in un’atmosfera sociale ed economica dominata da un’etica protestante del lavoro dove l’Islam sta attraversando una sorta di età della riforma.
Mehmet Suvruk, amico di vecchia data di Gül, afferma: “A Kayseri si dice scherzando che se non hai un figlio abbastanza sveglio per entrare in affari è meglio mandarlo all’Università”. È ovvio che i giovani all’Università ci vanno eccome, ma la battuta sottolinea che questa è una città laboriosa, entrata nel Guinness dei primati perché in un solo giorno furono aperte 139 società.
Qui si produce il 90% dei mobili della Turchia, una quota consistente del denim consumato nel mondo per marchi come Levi’s e Diesel, ci sono società elettroniche, zuccherifici e un’area industriale, Hacilar, dove già negli anni Settanta iniziò la “rivoluzione del sofà”, con la produzione di mobili esportati in tutto il mondo.
Alla sede della MÜSİAD, l’associazione degli imprenditori musulmani, mi consegnarono un giorno un libretto dal titolo Homo islamicus, un saggio che promuoveva con toni entusiastici i legami tra Islam, capitalismo e libero mercato, sottolineando con enfasi che Maometto prima di diventare Profeta era un mercante.
Mustafa Boydak, capo di una holding con 2 miliardi di fatturato e 12 mila dipendenti, dice: “Aprire una fabbrica è come esaudire una preghiera: è stato Maometto a incoraggiare i musulmani ad acquistare scienza e tecnologia ovunque si trovino”.
Le Tigri dell’Anatolia sono una lezione su come è cambiata l’economia turca negli ultimi decenni. E di riflesso il loro successo spiega anche l’ascesa di nuove élite e classi sociali accompagnate da un modello di sviluppo assai diverso rispetto al passato. Negli anni Trenta in Anatolia e a Kayseri furono collocate fabbriche moderne e kombinat industriali sul tipo sovietico. Queste industrie con le loro ciminiere erano chiamate i “Minareti di Atatürk”. Lo Stato era il principale produttore e investitore del Paese e all’alba degli anni Sessanta la Turchia appariva ancora a economia controllata e dirigista.
È negli anni Ottanta con le riforme liberali di Turgut Özal, seguite al colpo di stato del settembre 1980, che esplodono le esportazioni e la Turchia entra nell’economia globalizzata. L’instabilità permaneva, come dimostrano le crisi bancarie e valutarie del 2000 e del 2001, ma intanto si era messo in moto un meccanismo di liberalizzazioni e di privatizzazioni di portata epocale. Nel ’99 per esempio c’erano 50 imprese non bancarie di proprietà statale con 500 mila dipendenti circa: negli ultimi vent’anni sono state privatizzate 200 imprese e in tre quarti di queste la presenza dello Stato è nulla.
Segnali di integrazione con l’Area MENA
L’integrazione economica con l’Europa ha svolto un ruolo centrale nel sostenere la crescita economica turca, ma negli ultimi anni i negoziati di adesione si sono bloccati e il ruolo dei Paesi dell’Unione Europea nell’interscambio commerciale turco è andato diminuendo mentre sta crescendo l’integrazione con i Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente, la cosiddetta aerea MENA, sostenuta da una politica estera più attiva e sa numerosi accordi commerciali.
La quota di scambi commerciali con la UE ha continuato a diminuire: da 50% e oltre si è passati, secondo gli ultimissimi dati, al 37%. Un calo motivato anche dalla prolungata recessione in molti Paesi europei e in parte compensato dal fatto che gli investimenti europei in Turchia continuano a crescere. Tra il 75% e il 98% degli investimenti diretti esteri arriva dall’Europa: nell’ultimo decennio dall’Europa sono arrivati in Turchia investimenti per circa 70 miliardi di dollari mentre stanno aumentando anche gli investimenti turchi in Europa, circa 10 miliardi di dollari negli ultimi dieci anni, il 65% del totale degli investimenti all’estero della Turchia. Si tratta questo di un fattore importante di stabilizzazione che però non può oscurare i problemi delle relazioni economiche e politiche tra Ankara e Bruxelles.
Ne cito uno tra i tanti. La Banca mondiale ha iniziato l’esame dei meccanismi che regolano l’Unione doganale in vigore dal 1996 tra Unione Europea e Turchia, accogliendo una richiesta di entrambe le parti, dopo le accuse reciproche di violazione delle intese. La Turchia in particolare è preoccupata dalla prospettiva di rimanere fuori da un futuro accordo di libero scambio tra UE ed USA.
La decisione di rivolgersi all’arbitrato della Banca Mondiale è stata presa alla fine dello scorso anno, dopo uno scambio di accuse di violazione dei patti. Il ministro per i rapporti con la UE Egemen Bağış e quello del Commercio Zafer Çağlayan avevano minacciato il ritiro della Turchia dall’accordo doganale del ‘96 se Bruxelles non avesse accettato di rivederlo. A preoccupare Ankara sono i colloqui tra UE e USA per un accordo di libero scambio che minaccerebbe di danneggiare i rapporti commerciali della Turchia sia con l’Europa sia con gli Stati Uniti.
Ambizioni turche
La Turchia è la sedicesima economia mondiale e aspira entrare nel 2023 entro le prime dieci. Il PIL della Turchia dal 2001 al 2011 è cresciuto in media del 5,3% annuo in termini reali. Il PIL pro capite è passato, in termini nominali, dai 3 mila dollari del 2001 ai 10 mila del 2011: l’aumento è stato di quasi il 50 % in termini reali. L’età media su 72 milioni è di 28 anni, il 65% è sotto i 34. Il tasso di occupazione ha un potenziale di crescita notevole, il sistema educativo è eurocompatibile, il tasso di analfabetismo quasi inesistente. Nel 2003 le persone che utilizzavano Internet erano 6 milioni ora sono 37-38 milioni. E su 72 milioni di persone ci sono oltre 63 milioni di telefoni cellulari.
L’interrogativo è se la forte crescita economica dell’ultimo decennio è sostenibile nel lungo termine. Ci sono già dall’anno scorso segnali di rallentamento. Poi bisognerà vedere come proseguirà l’integrazione economica con l’Unione e come influirà la crescente disaffezione nei confronti dell’Europa. Altro interrogativo è il trend delle relazioni economiche con i Paesi MENA e come influiranno le transizioni arabe.
Politica estera
L’evoluzione demografica fa della Turchia un Paese chiave nel Mediterraneo e a livello globale. Oggi i musulmani sono 1,6 miliardi, nel 2030 potrebbero diventare 2,2 miliardi, e rappresenteranno più o meno un quarto della popolazione mondiale (dati Pew). Nel 2030 più di sei musulmani su 10 vivranno in Asia (il Pakistan supererà l’Indonesia). La Turchia ha cercato di reagire a queste sfide globali e a quelle regionali determinate dalla “Primavera araba”, cioè alle rivolte di giovani generazioni che si sono mobilitate davanti alla tremenda mancanza di risposte concrete ai loro bisogni. Certo il passaggio dalla protesta a quello della proposta politica e la possibile evoluzione interna di queste rivolte è il più difficile: la cosiddetta transizione potrebbe deragliare tra contraddizioni e fattori di conservazione. Il 2013 e il 2014 potrebbero essere quindi anni cruciali per l’evoluzione delle società arabe e per gli equilibri mondiali.
La Turchia è in pieno in questo processo. È un Paese decisivo per esempio nel triangolo Siria-IraqIran. La sfida qui è strategica perché direttamente ai confini della repubblica turca ma è anche globale perché implica i rapporti Est-Ovest e Nord-Sud del mondo. La Turchia è da mezzo secolo un bastione della NATO e continua a esserlo perché ospita una parte consistente del sistema anti-missile difensivo americano e dell’Alleanza atlantica. È quindi nel cuore della questione del nucleare iraniano e gioca una partita doppia: quello di membro della NATO e di storico alleato degli Stati Uniti ma anche di Paese mediatore.
Siamo in pieno nell’arco della crisi mediorientale con implicazioni economiche e politiche per la Turchia assai rilevanti: Ankara è in rotta di collisione con la Siria di Bashar Assad e ha dovuto adeguarsi alle sanzioni occidentali imposte all’Iran, anche se in pratica continua a essere uno dei partner economici più rilevanti di Teheran e uno dei maggiori importatori di gas iraniano. Anche con l’Iraq le relazioni sono complesse, segnate da diversi attriti mentre Ankara sta sviluppando una politica interessante con il Kurdistan di Barzani.
Siamo al cuore della questione centrale e vitale della politica turca: la questione curda con una guerriglia e un terrorismo che durano da oltre 30 anni. I recenti accordi per il cessate il fuoco tra Ankara e il PKK di Öcalan rappresentano una svolta storica. Hanno coinvolto direttamente il governo curdo di Erbil ed escluso quello centrale di Baghdad. Non solo: la Turchia ha intensificato la presenza delle sue compagnie petrolifere in Kurdistan, nonostante l’esplicita e insistente opposizione degli Stati Uniti.
Ma ovviamente anche la Russia è un partner di primo piano per la Turchia. Come si possono ignorare gli accordi energetici sul gas e le varie questioni economiche e politiche che derivano dal progetto di fare della Turchia un hub energetico di livello mondiale? Inoltre lo scudo anti-missile NATO non è rivolto solo verso l’Iran ma anche sul Mar Nero e qui ovviamente i russi sono in allarme.
Parlo di questo perché siamo nella piena attualità. Lo scudo anti-missile è considerato da Mosca uno dei punti fondamentali per ottenere l’appoggio della Russia sia per risolvere la questione siriana che quella iraniana.
Accenno soltanto di sfuggita al fatto che quasi ogni mossa nel triangolo mediorientale Siria-IraqIran ha per la Turchia riflessi anche nel Caucaso e nelle ex repubbliche sovietiche: basti pensare soltanto all’alleanza di Ankara con Baku e alla questione armena. Non so se si può definire la politica estera della Turchia come quella di un global player ma sicuramente credo che bastino questi brevi cenni per dimostrare che l’azione della Turchia e i suoi interessi sono molto superiori a quelli di una media potenza regionale. Insomma la politica estera turca non si può certo circoscrivere al Mediterraneo perché qualunque questione si tocchi, politica o economica, rivela implicazioni ben più vaste.
La politica turca nel Mediterraneo deve quindi tenere conto di un’area ben più ampia di quella regionale. Lo si è visto bene nel caso della Libia quando la Turchia pur invocando la partenza di Gheddafi ha limitato al massimo il suo coinvolgimento con la NATO per non irritare troppo partner importanti come Russia e Cina. Ma allo stesso tempo Ankara ha sfoderato tutto il suo soft power, i legami storci con la Libia, la sua consolidata presenza economica, per rientrare nel gioco libico da protagonista. Non solo. Con la crisi siriana la Turchia ha ulteriormente approfondito i rapporti con diversi gruppi libici permettendo il loro afflusso ai confini con la Siria. I risultati di questa azione sono tutt’altro che chiari ma è evidente che la Turchia è in Libia uno dei Paesi con la maggiore influenza sul campo.
La “Primavera araba” è stata vista dalla Turchia come una grande opportunità. I viaggi del primo ministro Erdoğan al Cairo, a Tripoli e Tunisi, sono un esempio dell’attivismo turco. È ancora presto per valutare sotto il profilo politico la portata della diplomazia turca ma alle imprese di Ankara sono stati confermati vecchi contratti e ne sono arrivati di nuovi.
Quanto alla cosiddetta esportazione del modello turco nella regione sono stati per primi i diplomatici turchi a volere evitare equivoci come ne sono sorti al Cairo. Per altro devo notare che a Tunisi nel quartier generale di Ennahda spiccava una gigantografia di Erdoğan, come emblema di capo di un partito musulmano pragmatico e di modello politico rassicurante per l’Occidente.La politica estera turca nel Mediterraneo non è soltanto rose ma anche spine. Basti pensare alla questione dei rapporti con Israele dopo la vicenda sanguinosa della Mavi Marmara, come pure alla questione annosa e critica di Cipro, una ferita aperta nel momento del semestre europeo cipriota, complicata adesso anche dallo sfruttamento di giacimenti di gas offshore.
Ma quel è la novità? Con i rivolgimenti geopolitici della “Primavera araba” e i mutati equilibri nella regione del Mediterraneo allargato i problemi della Turchia non sono soltanto turchi ma anche nostri.
La Turchia, l’Italia, l’Europa e l’Occidente condividono obiettivi comuni e fondamentali: stabilità, sviluppo economico e democrazia. Se questo vale sul piano globale è ancora più evidente nella casa di tutti, il Mediterraneo. Mi sia consentito un piccolo ricordo personale: nel 1980 andai in Iran per vedere la rivoluzione di Khomeini, quando da Teheran tornai in Turchia era in corso il colpo di stato del generale Kenan Evren e pochi giorni dopo sarebbe divampato anche il conflitto tra Iran e Iraq.
Sono passati 32 anni da allora, la Turchia ha fatto passi da gigante sia in politica che in economia ma i suoi vicini di casa vivono ancora nella paura governati da regimi duri e autoritari e stentano a uscire dalle tenebre di conflitti che sembrano non finire mai. Eppure sembra che l’Europa non sia capace di apprezzare fino in fondo la lunga marcia della Turchia, come se i turchi da secoli non facessero parte della nostra storia. Come se noi stessi, come europei, non fossimo stati anche turchi e ottomani. A volte pretendiamo di scrivere la storia degli altri senza neppure conoscere la nostra.
Alberto Negri è inviato speciale del Sole 24 Ore.