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Cosa mi lascia perplesso dell’enciclica di papa Francesco. Il commento di Vittorio Robiati Bendaud

Di Vittorio Robiati Bendaud

L’enciclica di papa Francesco sta facendo discutere, con almeno due tifoserie avversarie, tanto scontate quanto prevedibili, sia in seno al cattolicesimo che alle società occidentali. Si passa dal plauso entusiasta e dogmatico – che confesso risulta un po’ irritante – a critiche feroci, talora scomposte, spesso anche evidentemente eccessive e ingiuste (in primo luogo nei riguardi della Massoneria, la grande accusata da certi conservatori furiosi, che, indipendentemente che la si esecri o vi si aderisca, eccezion fatta per storture del passato ben note alle cronache giudiziarie e giornalistiche, è realtà seria e interessante).

Personalmente, invece, trovo tutto questo, dallo scritto in sé alle chiassose polemiche che ne conseguono assai povero di contenuti, con temi, peraltro, già ampiamente anticipati da vari interventi pontifici negli ultimi anni, che vengono ora riassunti, organizzati e portati ad alcune loro conseguenze, senza però significative novità. E qui probabilmente dimora parte del problema… Il fatto che, a mio avviso, vi sia poco di interessante.

Rattrista vedere tradizioni di pensiero, al loro interno fieramente combattute, eterogenee e dialettiche, che spaziano dall’economia alla politica, dalla giurisprudenza all’etica, ridotte a un capitoletto da Bignami. E già questo, a ogni buon lettore avvertito, indipendentemente dalla fazione, dovrebbe ricordare che un simile approccio strizza molto gli occhi al sentire populista (scrivo volutamente “sentire” e non “pensare”). Si pensi al liberalismo, che al suo interno ha declinazioni secolari estremamente diverse, talora lontane l’una dall’altra quanto le sponde dell’Atlantico. E al nazionalismo, anch’esso al suo interno assai eterogeneo, ridotto esclusivamente a feticcio satanico. Considerare realtà articolate e sofferte, ove si sono spesi, con successi fulgidi o con neri baratri, intelletti umani potentissimi “un tanto al chilo” è, per come vedo il mondo io, falsante e poco onorevole. Sostenere questo non significa che si debba essere polverosi, autoreferenziali e inascoltabili eruditi topi di biblioteca (che, peraltro, normalmente non sono persone così pericolose, sebbene solitarie e silenziose, a differenza di molte altre categorie umane).

Papa Francesco parla, con precise declinazioni politiche, di amore universale e di amore senza frontiere. Chiunque muova critiche a parole tanto potenti per forza evocatrice sa già di essere immediatamente sconfitto e di risultare molto antipatico. Anzi, ancor più, particolarmente spietato, proprio perché si oppone a un (para)ragionamento assai seducente: quello dell’amore e dell’amore sovrabbondante, tracimante e universale. Tale presunto – inesistente e impraticabile per un essere umano – amore universale è talmente infido che squalifica chiunque muova delle critiche o rende costui, molto munificamente, quando va bene, pietosamente tollerabile. Fondamentalmente, in qualche modo, si ripropone verso chi avanza critiche o non è pago di tale sconfinato orizzonte l’immagine oppositiva e antigiudaica con cui il cristianesimo distorse per millenni, con caricature false e crudeli, l’ebraismo. Tuttavia, questo spettro ora si è mutato, passando dall’agone teologico a quello politico, dal momento che l’amore senza frontiere viene qui additato come virtù politica. Ha del paradossale che, in un’era di laicità (benedetta se rigorosa!), il cristianesimo occidentale contemporaneo, logorato da travagli nella fede, “teologizzi”, con la retorica amorosa della fratellanza universale, la politica …gran brutto affare!

L’amore, come l’amicizia – che è anch’essa un’esigente e altissima forma di amore -, è in sé, in quanto tale, a meno che non si voglia fare della retorica da osteria, esclusivo ed elettivo. Non è, cioè, né distributivo né equo; non risponde a logiche di giustizia o di bontà, ma è correlato alla fedeltà. L’amore è disperatamente elettivo. Questo è l’unico tipo di amore, a meno che si smarrisca il preziosissimo senso del lemma e con esso l’innamorarsi, che gli esseri umani possono sperimentare. Non esiste alcun amore universale esperibile da un essere umano: è una chimera o una tentazione. È una tentazione perché vagheggiare di amore universale ha un effetto non solo rassicurante su se stessi, ma, ancor peggio, narcisistico, per cui, chi ne parla, si gargarizza con tali espressioni e con esse si accredita, non perché stia amando ma perché sta provando a sedurre. L’unico amore universale agente in questo mondo, per chi crede, è quello di Dio per la Sua Creazione e per ogni essere umano, chiunque questi sia. Negare che l’amore sia elettivo significa negare sia l’esperienza umana comune sia il dato biblico tanto del Cantico dei Cantici che del Libro di Osea, ove il problema sono appunto amore e fedeltà, struggimento e infedeltà.

Il papa si sofferma poi sulla libertà e, successivamente, sul noto e stravagante punto afferente alla proprietà privata. La prima forma di libertà che un essere umano sperimenta, su cui si modellano tutte le altre, è la libertà di movimento, che non afferisce a evanescenze spirituali, ma alla concretezza tattile del corpo. Concretamente: la libertà politica è correlativa a libertà economiche, il che esiste soltanto ove sia garantita la proprietà privata. Questo non significa affatto che non vi possano essere correttivi e limiti alla proprietà e alla ricchezza e tensioni ideali. Tuttavia, ove è stata fatta salva la proprietà privata, la Storia ci insegna che, pur essendo perfettibili e assolutamente attraversati da contraddizioni e finanche da orrori, si sono però innescati sistemi politici che hanno implementato i diritti individuali (e i doveri, anche se spesso non con la stessa enfasi, erroneamente). Non vale il contrario.

Papa Francesco parla – comprendo e condivido l’afflato – di una solidarietà che vada sempre più aprendosi. Al riguardo, fa riferimento alla tradizione ebraica, ove l’amore per il prossimo riguarderebbe nell’antichità ebraica il prossimo inteso come connazionale, mentre successivamente si sarebbe assistito a un allargamento ermeneutico e morale del testo. Il papa suggerisce che le letture più chiuse siano state offerte in Terra di Israele e che quelle più universalistiche – e dunque moralmente più elevate – siano diasporiche. Al riguardo cita Hillel e certi suoi famosi pronunciamenti, anche molto belli in verità. Purtuttavia, Rabbì Hillel, che veniva da Bavél (Babilonia), venne chiamato a esercitare proprio in Terra di Israele dai suoi abitanti. Non solo, Gesù di Nazareth, che mai sperimentò la Diaspora, mi pare fosse anch’egli figlio della Terra di Israele e non certo della Diaspora!

Circa la Memoria, infine, stupisce, e molto, che il papa non abbia citato a chiare lettere, prima ancora della Shoah, il Genocidio di armeni, dei cristiani greci del Ponto e dei cristiani assiri. Anche a fronte della tremenda contemporaneità, tale smemoratezza nei confronti dei cristiani d’Oriente lascia quantomeno assai delusi e molto perplessi…

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